sabato 25 luglio 2009

Sinfonia per cori ortodossi e lacrime. (Kosovo, parte seconda).

Il bozur, fiore tipico del Kosovo

Se il viaggio precedente aveva nel ricordo, come sottofondo, le note e le parole dei CSI, questo secondo viaggio ha una musicalità diversa, e vissuta. E’ la musica delle voci dei monaci di Decani, e quella del pianto di Jordanka, che è venuta con noi in Kosovo insieme alla più piccola delle sue quattro splendide figlie, a rivedere la sua terra e quella casa nella quale vissero solo sei mesi, col marito (scomparso successivamente) e le cinque figlie (il destino avrebbe colpito anche la più grande di loro). I suoi dodici ettari di terra in Kosovo, di fatto, non le appartengono più; qualcuno ci ha anche costruito, naturalmente senza chiederle il permesso. La casa è completamente distrutta; la lasciarono fuggendo in fretta e furia, insieme a migliaia di altre famiglie di serbi (a proposito di pulizie etniche). In questo viaggio straziante, ma in qualche modo inevitabile, Jordanka ha potuto anche piangere sulla tomba del nipote, ammazzato a 18 anni dai ‘liberatori’. E io non ho potuto fare a meno di documentare e fotografare anche quei momenti, quella disperazione, quell’abbraccio e quelle lacrime, e le sue parole sulla lapide del cimitero serbo all’interno del Kosovo indipendente. Ma sono documenti, foto e storie che non riporterò in questo contesto, per motivi che a me sembrano scontati: perché il rispetto per l’essere umano viene prima di qualunque diritto di cronaca (cosa che non impareranno mai, certe squallide figure di famose trasmissioni nostrane), e poi, perché voglio bene a Jordanka e alle sue figlie, e raccontare certe storie, certi dolori atroci, senza mancare di rispetto o banalizzare, forse è anche possibile, ma servirebbe un poeta, di quelli bravi, di quelli veri. Io non me la sento.

13 luglio


Il viaggio per riaccompagnare i ragazzi a Kraljevo è stato più faticoso dell’andata. Colpa del torneo di calcio organizzato due giorni prima alla cooperativa Capodarco (Grottaferrata), per chiudere in bellezza le vacanze romane dei ragazzi. Ne siamo usciti tutti coi muscoli a pezzi (e le gambe massacrate dai pappataci). Un viaggio lunghissimo (circa 24 ore, quando in macchina sono 17) perché Rade rispetta le regole, la velocità massima consentita e le soste. Malgrado la durata estenuante, restiamo più d’uno con l’amaro in bocca per non aver saputo come va a finire il film jugoslavo proiettato dal monitor del pullman (ritroveranno la bella Galina, i nostri eroi? Mah…).

14 luglio
All’arrivo, in mattinata, feste dei familiari in attesa, momenti di commozione e doni (io mi ritrovo tra le mani una grande bottiglia di ‘zrno vino’ (‘vino nero’). Poi, una delle famiglie, ci invita ad andare a visitare la casa che hanno comprato e che stanno sistemando; c’è molta terra da coltivare, intorno (ed anche lo spazio per un campo di calcetto, lo notiamo subito io e Alessandro).
A casa di Novka, la prima rakja. E naturalmente, si pranza.
La seconda rakja la beviamo a casa del nostro autista, una bella famiglia. Ci organizziamo per andare in Kosovo domattina; stavolta viaggeremo più comodi, andremo con un Ducato e ci accompagnerà anche il nipote, che conosce bene le strade e approfitterà per andare a trovare i parenti rimasti lì. Ceniamo da Jordanka e figlie. Basterebbe il ricordo di tutta quella carne squisita, a digiunare per una settimana; passiamo una serata piacevolissima, riscaldati, stavolta, più che dalla grappa, dall’amicizia e dall’affetto.




15 luglio
Si parte in mattinata, otto persone comprese Jordanka e la figlia Beba, che era piccola quando fuggirono.
Il solito paesaggio aspro e verde; alla nostra sinistra scorre il fiume Ibar. Bellezze naturali davvero poco sfruttate: su di un monte, in lontananza, osserviamo i resti di una castello antico, che potrebbe essere meglio valorizzato. Ma la Serbia è fuori da tutto, anche dal turismo, e precedenti tentativi di dare qualche impulso all’organizzazione del turismo, e della valorizzazione delle tante risorse, ha portato alla consapevolezza che, per loro stessa ammissione, c’è un ritardo organizzativo e strutturale di almeno vent’anni. Mentre Beba osserva il castello, è impossibile, per quanto un po’ scontato, non pensare ad una principessa partecipe di questo incantesimo malevolo, che avvolge da sempre tutto il Paese. Certo, nelle fiabe, l’incantesimo alla fine si spezza, ma qui siamo nella dimensione della tragedia, e le cose sono un po’ più complicate.


Ci fermiamo da una famiglia per lasciare i soldi di un sostegno a distanza, e poco dopo, di nuovo, attraversiamo, a Mitrovica, il ponte che separa.


Ma prima ci fermiamo all’ospedale, a trovare una bambina, malata terminale, che usufruisce del sostegno di una delle volontarie del gruppo. Anche su questo, per rispetto, è opportuno non commentare. Di quel male, che si sta portando via tanta gente, compresi nostri militari, tutti sapevano le cause, e questo non ha impedito di bombardare ad uranio impoverito tutti quanti, compresi quelli che, a chiacchiere, si doveva ‘liberare’. Tutto contaminato, tranne quella parte di terreno dove è stata costruita la grande base militare statunitense.


Alessandro cerca di organizzare il percorso; chiama Padre Andrej per la visita al monastero di Dečani, ci dicono che alle ore 18 ci sarà una funzione, e sarebbe bello assistervi. Poi, una telefonata a madama Dobrila, per la visita al patriarcato di Peć. Osserviamo le moschee, una delle quali in costruzione, passando per Novi Pasar; a destra, c’è la strada per il Montenegro.



Più avanti, incontriamo due cortei nuziali, in perfetto stile jugoslavo: corteo di macchine, in fondo un camioncino scoperto, con una banda che suona, come nei film di Kusturica e, davanti, la macchina che apre il corteo con la bandiera nazionale. E’ un po’ strano vedere, per la prima volta in un frangente simile, la bandiera kosovara; una sensazione ancora più irreale quando, il corteo successivo, ci viene incontro con la bandiera dell’Albania.

Quando arriviamo a Dečani sono le 16. Passiamo dai soldati italiani, cui affidiamo i passaporti, e veniamo accolti dai monaci con la consueta gentilezza. Accendo, seguendo il tradizionale rituale, dei ceri negli spazi appositi: in basso per i morti, in alto per i vivi. Rivisitiamo, per la seconda volta questo mese, la storia del monastero, con Beba che fa le prove da traduttrice (e se la cava benissimo). Per una volta, tra le icone che compro per portarle agli amici, ne prendo una per me, che rappresenta l’icona, presente in questo monastero e credo sia unica, di Cristo con la spada. La spada che, ci spiega uno dei monaci, rappresenta “nessun compromesso con la Verità e la Giustizia”.












Anche stavolta saliamo nella lunga terrazza che fa da refettorio e beviamo, invece della rakija, il vino nero, mentre Jordanka sfoglia con uno dei monaci il registro, alla ricerca del suo nome: in questo monastero ha ricevuto la cresima.

Un monaco fa i tre giri intorno al monastero, battendo su un asse di legno; è il segnale che ci si deve preparare per la funzione. I monaci entrano per primi, noi subito dopo. Qui, come direbbe il filosofo, si dovrebbe tacere, perché è difficile riportare la suggestione di queste atmosfere, del rituale dove la lettura dei testi sacri si accompagna alle melodie e alle sfumature delle sonorità delle voci dei monaci (non c’è coinvolgimento della gente, che assiste), tra il profumo dell’incenso e i gesti in sincronia con le parole del testo. Come sempre, ho finito per dire anche troppo, ma l’esperienza andrebbe vissuta. In particolare, si dovrebbe vivere il giovedì, quando, ci spiegano, c’è una funzione cantata dove per l’occasione viene aperta la tomba di Stefano Re. Anche stavolta ci regalano qualcosa, ed è proprio il libro del Santo Re Stefano di Dečani, ed anche un cd (che ci invitano a copiare) dove c’è l’intera funzione cantata.


Ripartiamo con ancora la suggestione di quella polifonia profumata d’incenso.

Passiamo davanti al Villaggio Italia, la base militare a Belo Polje, scartando l’idea di fermarci perché il tenente colonnello della volta scorsa non ha ancora risposto alla mail di Alessandro, che richiedeva un incontro. Davanti alla base c’erano due ettari di terra, di proprietà del nostro accompagnatore. Su questa terra, che nessun diritto internazionale lo aiuterà a recuperare, ora ci sono i negozi, costruiti per commerciare con i militari della base. La sua terra.

A casa del nostro amico poliziotto, dove eravamo stati ospitati la volta scorsa, ritrovo il marsupio che avevo dimenticato, cui tenevo in particolare perché m’aveva accompagnato in un’altra missione, in Iraq. Arriva la telefonata del tenente colonnello: per questa volta non ce la faremo ad incontrarlo. Incontriamo invece una grappa a 54 gradi davvero notevole, e ceniamo con i soliti, giganteschi e ben farciti, panini coi ćevapčići. Prima di andare a dormire, c’è ancora il tempo per discutere sul ‘falso storico’ della birra che ora chiamano Peja… e sulla scritta dell’etichetta: ‘dal 1971’. Ma nel 1971 birra da queste parti aveva un altro nome ed era di fabbricazione serba. Damnatio memoriae applicata anche alle bevande. Io, comunque, continuo a preferire la mitica Jelen Pivo (birra del cervo).



16 luglio

“Leptir”, farfalla in serbo; ce n’è una sopra un fiore, la mattina, quando andiamo a salutare chi ci ha ospitato, e a pagare il disturbo. Il nome mi torna spontaneo, ricordando gli origami che componevo nel 2000, coi bambini appena arrivati dal Kosovo, durante un campo di lavoro… Beba mi gratifica con un ‘bravo!’. La moglie del nostro ospite ci ha preparato una ‘pita’ (altro buonissimo cibo di queste parti) per il viaggio; per i soldi, Beba ci traduce la richiesta: “Voi aiutate gente, voi buona gente, quello che volete dare va bene”. Lasciamo 60 euro facendo due conti, mentalmente, sulla volta scorsa quando eravamo solo in due. E’ bello e incredibile, quanta comunicazione autentica possa trasmettersi, quando il vocabolario è scarso; come se restassero le parole essenziali, e quindi anche i concetti essenziali, e si rischiasse minor fraintendimento: ancora una lezione dall’oriente; dopo gli origami, gli haiku giapponesi.

Quando siamo nei pressi del cimitero sono circa le 10,30, e Jordanka balza letteralmente dal pulmino correndo attraverso la strada. Le andiamo dietro in silenzio, e lasciamo che sfoghi il suo dolore sulla tomba che rivede dopo tanto tempo. Il cimitero è accanto alla strada; sulle tombe, come d’usanza, tazzine di caffè, bottiglie di grappa e altro. Come nel kolo, gli spiriti sono partecipi delle usanze dei vivi, e si può bere idealmente con loro, sulla tomba (del retaggio mai disconosciuto dai serbi con le origini pagane ho detto nella prima parte di questo doppio viaggio). Alcune tombe hanno la croce cristiana, altre hanno la stella comunista. Altre ancora le hanno entrambe. Ci sono le foto di marito e moglie; a volte, sotto una delle due foto, non c’è la data del decesso, semplicemente perché non è ancora avvenuto… ma intanto la tomba è pronta per quando sarà il momento.


Un albero antichissimo sovrasta l’entrata al cimitero, vicino ad una capanna altrettanto antica. Di fronte, una fontanella dedicata con tanto di foto (come si usa) a due fratelli uccisi dai terroristi. E questo è tutto, come mi ero ripromesso.



Nel villaggio di Goraždevac, il primo visitato la volta scorsa, c’è stavolta anche una bandiera del nuovo Kosovo. E una piazzetta chiamata Piazza Italia che non avevamo visto. Ci fermiamo ad una specie di bar, ricordando anche la promessa fatta al figlio del nostro autista, di comprargli una bottiglia di ‘Skanderbeg’. Per chi non lo ricordi, Skanderbeg (in questo caso si tratta di un brandy albanese) è anche il nome di un eroe albanese del 1400, ‘difensore della cristianità’. La damnatio memoriae non fa parte, sembra, del codice genetico dei serbi. Al contrario, sembra applicata loro dal resto del mondo: il loro nome sta per essere cancellato, perfino dai monasteri dove si è fondata la parte forse più intensa della loro identità. Mentre in Montenegro, mi racconterà poi Vladimir, la lingua serba continua ad essere parlata e insegnata, solo che adesso si chiama ‘lingua materna’, anche alle superiori. E, si dice ma non ho conferma, che qualcuno voglia estirpare il bozur, fiore tipico del Kosovo, legato alla memoria storica dei serbi e della battaglia del 1389. Nel frattempo, Jordanka, più serena, dopo aver contattato una signora del luogo che si occuperà per lei di curare le tombe, ci compra delle bottiglie di brandy… made in Croazia.

Lasciamo il posto, dalla strada possiamo vedere parchi con piscina, case con lapidi e bandiera serba, case in costruzione con bandiera albanese, e lapidi sul ciglio della strada con la stessa bandiera albanese, però a contrassegnare i morti dell’Uck, rappresentati con mimetica e mitra in mano.



Una grazia di Dio…

Con le mani sporche di quello che sembra sangue, ma è solo mirtillo, l’albero piantato da San Sava in persona qui al patriarcato di Peć, attendiamo il colloquio con madama Dobrila. Non visiteremo il monastero, stavolta, ma parleremo, a lungo, di storia e di quello che possiamo ancora fare; perché a lei interessa sapere cosa possiamo o vogliamo fare per i serbi che restano in Kosovo, non solo per quelli che sono dovuti fuggire. Mentre attendiamo, Beba si fa fotografare con un soldato italiano (credo sia un dispettuccio alla sorella più grande), mentre altri militari vanno a salutare con enfasi e grande confidenza madama Dobrila, elegantissima col suo cappellino per ripararsi dal sole. Io cerco di catturare immagini di pura bellezza tra fiori, corsi d’acqua e verde, ma so che rivedendole non renderò l’idea neanche per un infinitesimo.

Il colloquio si svolge all’aperto, e andrebbe riportato per intero anche stavolta. Ma alcune cose mi rimangono impresse: il grande impegno di madama Dobrila perché i serbi siano aiutati a rimanere in Kosovo, perché non svanisca l’identità serba (gli USA, dice, hanno promesso milioni di dollari per il ritorno a Osan, ma poi non si è visto nulla). Critica i tentativi di armonizzare le due etnie annullando le differenze: due persone con le quali ha appena finito di parlare proponevano lavori congiunti tra donne albanesi e serbe… ma per Dobrila è un esperimento già tentato da Tito, e non crede si possa convivere pacificamente annullando o ignorando le differenze, ma comprendendole e riconoscendole reciprocamente. Ecco perché non ha particolare entusiasmo per chi, da cattolico, voglia abbracciare la religione ortodossa: ognuno ha la sua religione, frutto di una tradizione e di una cultura che non può essere semplicemente dimenticata. Ecco perché è indignata da quei serbi che non ricordano nulla della loro storia, studenti che visitano il patriarcato ignorando la sua identità ma soprattutto, cosa che ritiene imperdonabile, professori, anche di teologia, che ne sanno ancora meno. Penso a come sarebbe bello poter portare questa signora a parlare da noi all’università, ancora più bello portare qui studentesse e studenti… magari dopo aver assistito alla funzione cantata del giovedì a Dečani. Non so se madama Dobrila apprezzerebbe la mia ricerca laica di comprendere una religiosità svincolata dalla fede e dalle scritture, ma sono sicuro che sarebbe affascinante discuterne. Tra le tante cose da riportare, ancora un paio: la cartina, che lei aveva chiesto agli americani per individuare le enclavi serbe, che manca del confine tra Kosovo e Albania. Ma soprattutto, mi colpisce quando, ancora una volta, parla dei soldati italiani che difendono il patriarcato. Li definisce, più volte, “una grazia di Dio”. Una grazia di Dio che siano loro a proteggere il patriarcato e, col patriarcato, tutti i serbi. E dice che sono “più che i nostri soldati serbi”. Ancora, testuale: “non si può immaginare la protezione del patriarcato da parte di un’altra Kfor”. Ci racconta, a suggello, di quando organizzarono una visita dell’arcivescovo, rischiando di celebrare senza la presenza della popolazione serba, che non era stata avvertita. Ci dice che furono i soldati italiani ad avvertire i serbi delle enclavi, ed anche che aiutarono fattivamente a cucinare e distribuire il cibo. E che alla fine prepararono dei sacchetti col cibo rimasto, distribuendoli alla gente. “Io non posso dimenticare questo, è straordinario”.

Stiamo per andare via, ma faccio tardare un poco il gruppo perché mi è arrivato un messaggio con una richiesta. Quando Beba mi viene a cercare, dentro la chiesa, torno e mi scuso, dicendo a madama Dobrila che dovevo accendere un cero su richiesta del mio amico Vladimir, che sapeva che sarei andato al patriarcato. E lei fa un bellissimo sorriso.



La giornata è ancora lunga, andiamo verso i luoghi dove abitava Jordanka con la sua famiglia; Beba fotografa tutto, ci si avvicina e ci si ferma alla scuola dove andava una delle sorelle. Ne approfittiamo per bere qualcosa, aspettando l’incontro con il capo villaggio, nel frattempo due camionette della Kfor spagnola si fermano vicino a noi, ed i soldati vengono anche loro a rinfrescarsi al bar.



Mentre parliamo con il capo villaggio, notiamo i container, tra i quali uno che funge da punto di ristoro, dove orgogliosamente campeggia una targa a spiegare che è stato allestito grazie al contributo dell'Unione Europea. Ce ne vorrebbe una anche per spiegare grazie al contributo di chi, quella regione è stata messa a ferro e fuoco, ma ci si potrebbe accorgere che i due contributi, forse, coincidono…

Nessuno invece ha contribuito a costruire bagni decenti, c’è una sorta di latrina poco distante.

Beba dà il meglio di sé come traduttrice, e ascoltiamo le dichiarazioni dignitose di chi non ha nulla da chiedere, perché pensa che ce la devono fare da soli. Ma qualcosa insieme, sicuramente, la faremo. Arriva il pranzo: grappa per aperitivo, e carne di svariati tipi e cotture.

Arriviamo intorno alle 18, in quella parte del Kosovo dove, su una collinetta dalla vista splendida intorno alla campagna e ai boschi, sui dodici ettari che le appartenevano, Jordanka e la sua famiglia vivevano da sei mesi in quella casa, vicino al roseto. Fino a quando sono dovuti scappare all’improvviso, per non essere uccisi.



Arriviamo sotto il sole, arrampicandoci sulla collina, camminando tra la campagna, entrando in un sottobosco fresco e suggestivo, di quelli che alimentano le fiabe e le storie di fate. Solo che, ancora una volta, la visione della casa, appena usciti dal sottobosco, riporta ad una realtà amara e tragica. Si entra in quel che resta dei due piani, tutto è distrutto, ci aggiriamo tra le rovine e speriamo che il destino non sia ulteriormente beffardo quando, incurante del rischio, Jordanka sale al piano superiore su quel che rimane delle scale fatiscenti. Quando ce ne andiamo, però, non portiamo con noi solo i resti della culla di legno di Beba, delle scarpine ritrovate tra le macerie, e del biberon. Jordanka porta con sé anche un ramo di quel roseto che pianterà nella sua casa di adesso. Un pezzo di memoria, ma vivo.

17 luglio

Sotto un sole feroce, stiamo per entrare alla Zastava, fabbrica storica della Jugoslavia, a Kragujevac (la città del massacro nazista del 1941). Con Alessandro andiamo ad intervistare Rajka, sindacalista, un altro personaggio storico, anch’essa con grande padronanza della lingua italiana. Incurante dei paradossi, come già spiegato, non mi sento sacrilego a paragonarla a madama Dobrila.

Due personalità grandissime, due persone speciali. E parlando con lei, e con l’operaio che, malato terminale, ci racconta tramite lei la sua storia, penso ad un altro sindacalista, mio amico e fratello, scomparso anni fa. Alle lotte in fabbrica, a quanto, lui, avrebbe apprezzato questo lavoro. E’ proprio grazie a lui che ho contattato, nel 1999, ‘Il Ponte per’, per la prima missione nella Jugoslavia appena bombardata. A Francesco Babusci, dedico il piccolo video che ho sottratto all’intervista (so che nessuno mi farà pagare il copyright). Rajka racconta di quando bombardarono la fabbrica dove si trovavano a fare gli scudi umani. La loro “seconda casa”. La disperazione, la ricostruzione a più riprese, i bombardamenti nel giorno della Pasqua ortodossa, le uova da colorare e distribuire alle famiglie, distrutte nei reparti… Il 70 per cento degli operai, volontari, morti di cancro per ripulire ogni volta dalle macerie radioattive…



Ce ne andiamo, su un pullman senza aria condizionata e con le poltrone a pezzi, discutendo con Alessandro di come sarà possibile organizzare tutto il materiale che stiamo raccogliendo. Alla stazione del pullman, una piccola rom chiede dei soldi, Alessandro le offre il gelato.

Una lunghissima camminata, appena arrivati a Kraljevo, ci porta, sotto il sole, a casa del fratello di Novka, dove mangiamo (e beviamo). Poi, mentre Alessandro, Samantha e Marzia sono in giro per la consegna dei sostegni, io mi rilasso a casa di Novka, parlando di amicizia, e scoprendo anche, da Marko, che ha finito di vedere, in due giorni, i cd con tutte le puntate della prima serie di ‘Carabinieri’ che gli avevo portato!
Una cena, ancora una volta sostanziosa, all’aperto. Poi andiamo a prendere il pullman per Belgrado.

A Belgrado arriviamo, sonnecchiando, alle 4,30 circa di mattina. Ci salutiamo coi tre baci, come si usa qui, poi, mentre il loro taxi si allontana verso l’aeroporto, io me ne vado in albergo. Come sempre, approfitto del viaggio per vedere i miei amici.

Vladimir, passeggiando per la fortezza di Belgrado (Kalemegdan) e, come una famosa canzone, ‘bevendo della grappa al Rakia bar’, mi racconterà di altre cose che stanno succedendo. Della battaglia del Kosovo che un libro americano ha praticamente riscritto, attribuendone la grandezza epica ad eroi albanesi cristiani, ma anche delle difficoltà all’interno della Chiesa ortodossa, con la prossima successione al Patriarca malato. Alcuni vescovi stanno cercando di modificare la liturgia, per renderla più simile a quella cattolica. E qualche monaco, girandosi verso la gente durante la messa (contrariamente al rito), s’è già preso qualche schiaffo, non solo in senso morale.

E’ il 18 luglio, domani tornerò in Italia; mentre aspettiamo Dzemilja con la sua amica Zorica (che, insieme al fratellino, vidi arrivare all’istituto minorile Drinka Pavlovic di Belgrado, piccolissimi e in pessime condizioni), assistiamo, in una delle piazze principali di Belgrado (l’equivalente, per gli appuntamenti, di quella che fu, a Roma, la lampada Osram), al 353° giorno di protesta per il Kosovo. Non mi pare di vedere giovani. In tutto, contando anche me stesso e Vladimir, che assistiamo, sono circa trenta persone.





L’ultima immagine, è quella con la quale ho aperto questo resoconto; l'immagine di un fiore che nasce in Kosovo, che chiamano bozur. Da una breve ricerca ho visto che ce ne sono varietà di colore anche rosa, ma quello che è considerato simbolo di questa terra è rosso, dal colore sanguigno. Per il folklore popolare, è a causa del sangue che innumerevoli volte ha macchiato la terra. Più simbolicamente, altri lo fanno risalire a quando, dopo la battaglia del Vidovdan, lo zar Lazar venne fatto prigioniero e decapitato. Da allora, sul ‘campo dei merli’, cresce questo fiore purpureo.

Una delle più lunghe dominazioni straniere nei confronti di un popolo, non è riuscita a sradicare le tradizioni e l’identità dei serbi. Chissà se, cancellandone il nome dappertutto, dai monasteri serbo – ortodossi, dalle lingue che si insegnano, o, come dice qualcuno, sradicando completamente questo fiore dal Kosovo, ci riusciranno. Resterebbe da capire qual è il senso di questa damnatio memoriae. Intanto, un po’ del nostro cuore, anche stavolta resta lì.


1 commento:

балканска девојка ha detto...

complimenti vivissimi !
uno tra i piu' bei blog che abbia mai letto