mercoledì 22 luglio 2009

Cieli slavi del sud. Non senza grazia. (Kosovo, parte prima)

Il termine paradosso deriva dal greco ed è composto da para (contro) e doxa (opinione). Indica una proposizione formulata in evidente contraddizione con l'esperienza comune o con i propri principi elementari della logica ma che sottoposta a rigorosa critica si dimostra valida. (Odifreddi)
Nel linguaggio comune ‘paradosso’ può significare tante, troppe cose: assurdità, contraddizione, enigma, mistero, ambiguità. (Odifreddi)

Nel 2005, la polizia kosovara è subentrata alle forze di interposizione internazionali, KFOR, nel garantire la sicurezza sul principale ponte di Mitrovica, che collega, attraversando il fiume Ibar, la parte settentrionale alla parte meridionale di questa città divisa.
(http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4422/1/45/).
Il ponte che separa la ‘parte serba’ da quella albanese di Mitrovica (Kosovo e Metohija), rappresenta un paradosso. Il paradosso, parola che userò con una certa libertà interpretativa, più vicina a quella del senso comune, per intenderci, è il paradigma di questo viaggio, intrapreso con Alessandro, alias Aquila Grigia, responsabile del ‘Ponte per’ riguardo all’area della ex - Jugoslavia. Un’avventura articolata in tre fasi solo apparentemente distinte.
- Entrare nel Kosovo ‘indipendente’ a visitare le enclavi serbe, raccogliere testimonianze e monitorare per quanto possibile gli effetti della guerra sui civili.
- Accompagnare a Roma i bambini e i ragazzi profughi, che ormai vivono a Kraljevo, e che il ‘Ponte per’ sostiene con gli affidi a distanza, affinché, come da una decina di anni a questa parte, possano fare una vacanza a casa delle famiglie che li sostengono.
- Passare una notte a Venezia e poi fermarsi in Abruzzo, in una tendopoli allestita da militari e protezione civile, per partecipare ad una iniziativa in uno dei paesi colpiti dal terremoto.

Scrivo sotto le note dei CSI, è un brano che cita il cielo slavo del sud. E durante il viaggio ho voluto fotografarlo a più riprese, quel ‘cielo slavo del sud pieno di grazia’. E’ stato allora che mi ha colpito la consapevolezza che questa avventura era, appunto, intrisa di paradossi.

Chi è che sa di che siamo capaci tutti
Il primo paradosso è la consapevolezza amara che, se avessi voluto fare un lavoro preciso (mio era l’onore e l’onere di monitorare con telecamera tutto il viaggio), avrei dovuto volgere al plurale quel cielo. Perché il cielo slavo del sud sono ormai troppi cieli. Paradosso, vale a dire ‘ciò che si oppone alla opinione comune’. Perché il cielo è uno, e solo un’opinione addomesticata e ammaestrata può separarlo con la concettualizzazione; separare tra gli uomini ciò che per la Natura è un’unica cosa.

Cielo slavo della Serbia

Ho fotografato il cielo slavo della Serbia, il cielo slavo della Croazia, il cielo slavo della Slovenia… Appuntandomi l’orario per poterli distinguere sulla carta, visto che con gli occhi al cielo non era possibile.

Cielo slavo del Kosovo

C’è poi il problema di come raccontare. Per sensazioni, per immagini, per fatti reali o collegamenti storici. Il desiderio di trasmettere le proprie sensazioni e quello di informare senza essere tacciati di visione soggettiva. Perché il sentimento non esclude la logica, ma è solo grazie a quest’ultima che si può discutere e cercare verità condivise. E allora, cosa racconto alla collega che incontro al supermercato, che mi chiede di spiegarle cosa è successo in Serbia, con la guerra, perché ha letto un libro dove si parla dei crimini di una parte sola? Racconto la storia della Jugoslavia, o le facce dei bambini cacciati dalle loro case, o dei cimiteri serbi bruciati nel Kosovo ‘indipendente’ (quelli albanesi nella zona serba sono intatti)? Racconto di come i servizi segreti croati (gli ‘acerrimi nemici’ dei serbi), i medici francesi (il paese che ha convinto l’opinione pubblica, contraria alla guerra ‘umanitaria’, mostrando ogni giorno le fosse comuni in televisione), i giornali americani (promotori di questa guerra), hanno tutti ammesso, a lavoro compiuto, che le centinaia di fosse comuni non c’erano? Oppure, sempre per restare ai fatti concreti, parlo del tribunale dell’Aja, quello creato per punire i serbi (e che ha assolto la Nato dopo il massacro dei profughi albanesi sul treno, definendolo ‘effetto collaterale’)? Quel tribunale che ha ammesso l’esistenza di ‘solo’ due fosse comuni, piene di tutto: albanesi, serbi, bosniaci. Militari e civili. Tutti insieme, come un tempo lo erano nella Jugoslavia. Negli USA, i giornali hanno smentito da tempo (magari per rifarsi una verginità prima di nuove bugie), in Italia pare lo abbia fatto un solo giornale, in 34a pagina, un trafiletto.
Questa è una parte della storia. Ma la storia andrebbe conosciuta; qualcuno, allora, comprenderebbe l’attaccamento disperato dei serbi per il Kosovo.

Vanificato il limite oramai
Vanificato il limite

Allora racconterò questo viaggio per immagini, magari con qualche concessione alla cronologia. E la prima immagine che racconterò è quella del gruppo incontrato sulla strada verso la ‘Piana dei merli’.


24 giugno, nei pressi della prima frontiera che separa serbi e albanesi nel Kosovo.
Un gruppo con le bandiere serbe, va a celebrare Vidovdan, San Vito (Видовдан), che ricorre il 28 giugno.

Battaglia della Piana dei merli (Adam Stefanović)
Riporto da http://balkan-crew.blogspot.com/2009/06/vidovdan-2009.html (dove c’è anche il video della famosissima canzone scritta per i 600 anni dalla battaglia), e da ‘Wikipedia’:

Il "Vidovdan" è un giorno che ha una forte simbologia per il popolo serbo: il 15.giugno (28.giugno calendario nuovo) 1389 nella battaglia di Kosovo Polje ("la piana dei merli" Kosovo e Metochija) il capo dell'esercito serbo Knez Lazar Hrebeljanovic e il capo dell'esercito turco, il sultano Murad primo, persero tutti e due la vita.
La battaglia della Piana dei merli, in serbo Косовски бој o Бој на Косову, venne combattuta il 28 giugno 1389 (il giorno di San Vito) dall'esercito serbo contro l'esercito ottomano, nella "Piana dei merli", (odierna Kosovo Polje a nord di Priština, capitale del Kosovo).
L'esercito cristiano, composto da una coalizione tra l'Impero serbo e il Regno di Bosnia, era comandato dal Knez (principe e condottiero) serbo Lazar Hrebeljanović. Le truppe della coalizione serbo-bosniaca contavano circa 25.000 uomini ben armati, suddivisi in tre armate. Erano comandati dal genero di Lazar, Vuk Branković, sull'ala sinistra, dal principe Lazar al centro e dal duca bosniaco Vlatko Vuković sull'ala destra.
L'esercito ottomano era guidato dal sultano Murad I e contava circa 50.000 uomini. La battaglia iniziò con l'avanzata della cavalleria serba, che distrusse completamente l'ala sinistra ottomana. Le truppe comandate da Branković riuscirono inoltre ad annientare completamente anche l'ala destra degli avversari, ma gli Ottomani furono infine raggiunti da cospicui rinforzi e poterono così sconfiggere i Serbi, stanchi e inferiori numericamente.
Pressoché tutta la nobiltà serba si fece uccidere sul posto insieme al Knez Lazar. Vuk Branković si ritirò e continuò la resistenza contro gli Ottomani, finché fu catturato da questi ultimi, morendo infine in prigionia.
Il nobile serbo Miloš Obilić riuscì poco dopo ad uccidere il sultano Murad con un inganno. Dopo la morte di Murad, il figlio Bayezid I continuò l'espansione ottomana verso i Balcani e l'Europa sud-orientale. Tuttavia il Regno di Serbia riuscì a sopravvivere per un altro secolo prima di cadere definitivamente sotto il dominio turco.
Entrambi gli eserciti ebbero delle gravi perdite, ma per la Serbia l'esito fu catastrofico: vennero infatti uccisi più di 150 cavalieri serbi e il Paese vide sparire gran parte della sua élite politica e militare. Il nuovo sultano Bayezid I prese come moglie la figlia di Lazar, la principessa Olivera Despina. I Serbi vennero costretti a pagare tributi ai Turchi ed a compiere servizi militari presso l'esercito ottomano, come nel caso della battaglia di Ankara. In seguito, dopo altre due battaglie minori e l'assedio di Semendria, gli Ottomani annetterono il resto del Regno di Serbia, completandone la conquista nel 1459. La fine dell'indipendenza serba fu l'evento che diede la possibilità all'esercito ottomano di arrivare fino alle porte di Vienna.
La battaglia della Piana dei merli è considerata dai serbi uno degli eventi più importanti della loro storia, fonte di gran parte del loro sentimento nazionale. La battaglia e la sorte dei cavalieri cristiani divennero il soggetto di molta poesia epica medievale serba, parte della quale composta presso la corte della vedova di Lazar, Milica. Il principe Lazar venne canonizzato dalla Chiesa ortodossa serba.

Vidovdan
U nebo gledam prolaze vekovi Sećanja davnih jedini lekovi
Kud god da krenem Tebi se vraćam ponovo Ko da mi otme iz moje duše Kosovo K'o večni plamen u našim srcima Kosovskog boja Ostaje istina. Kud god da krenem Tebi se vraćam ponovo Ko da mi otme iz moje duše Kosovo
Oprosti Bože sve naše grehove Junaštvom daruj kćeri i sinove.
Kud god da krenem Tebi se vraćam ponovo Ko da mi otme iz moje duše Kosovo
Guardo nel cielo, i secoli che passano
Le antiche memorie sono l’unica cura
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.
Come l’eterna fiamma nei nostri cuori
La battaglia del Kosovo resta l’unica verità
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.
Perdonaci Signore tutti i nostri peccati
Dai coraggio ai nostri figli e alle figlie
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.



Kosovka Devojka (Ragazza kosovara), del pittore Uroš Predić (1919) In origine la “Kosovka Devojka” era la figura principale di un poema epico: una giovane e bella ragazza che dopo la battaglia di Kosovo Polje si prende cura dei guerrieri serbi feriti mentre sta cercando il suo fidanzato, il suo padrino e il suo futuro testimone di nozze tra i caduti. Da un ferito viene poi a sapere che sono caduti tutti e tre in battaglia. (http://balkan-crew.blogspot.com/2008_09_01_archive.html)

Conoscendo la storia, è una sensazione strana incontrare questo piccolo gruppo di persone. Lo guardiamo mentre si allontana con le sue bandiere, scortato da macchine della polizia.
Nella nostra macchina, invece, il poliziotto serbo che lavora nel Kosovo a maggioranza albanese, che ci fa da guida, continua a raccontare. Ci ha caricato a Mitrovica ‘serba’, due passi dal ponte che segna il confine con la Mitrovica ‘albanese’. Lo aspettiamo conversando con l’interprete appena conosciuta; Jelena è un’insegnante di scuola elementare e parla benissimo l’italiano. Al bar, aspettiamo conversando; Alessandro vuole sapere se è vero che i bambini albanesi, anche dopo la guerra fratricida, continuano a venire a curarsi in Serbia. Un altro paradosso, ma sembra tale solo per noi italiani. Jelena e il nostro accompagnatore confermano, come se fosse la cosa più naturale del mondo, anche quando Ale persiste a chiedere conferma, “ma anche dopo che avevano fatto una guerra per staccarsi”… E io ricordo, all’indomani della fine dei bombardamenti Nato: anche a me pareva strano che a Belgrado vivesse indisturbata una consistente comunità albanese… forse anche in me c’era un po’ della suggestione sulla ferocia del popolo serbo, non li conoscevo ancora bene.

A Mitrovica siamo arrivati dopo un viaggio di un paio d’ore in macchina, con la nostra guida, profugo anche lui, che avrà la triste opportunità di rivedere alcune delle case bruciate e distrutte, tra le quali la sua. Qui molte macchine non hanno la targa, in parte perché sono rubate, in parte perché, chi è costretto per lavoro (come nel caso del nostro accompagnatore) a fare avanti e indietro tra le due parti, potrebbe avere problemi. Infatti, quando siamo pronti per partire, lui sta rimettendo la targa. Lasciamo Mitrovica - parte serba e i suoi cartelli con ‘Kosovo è Serbia’, sempre più slogan e sempre meno speranza.
Elicotteri USA sorvolano il cielo slavo del Kosovo, incontriamo spesso le jeep della KFOR francese, ma anche qualcuna dei nostri carabinieri. E’ mezzogiorno passato, la giornata è piovosa, ed io sto consumando la memoria della videocamera, visto che Alessandro m’ha incautamente detto di riprendere anche le mosche. E io più o meno faccio proprio questo. Secondo lui, le facce sono uguali da entrambe le parti, a me non sembra.

Soffice crepitio sulla terra
Mentre veniamo messi al corrente delle conseguenze dei bombardamenti (cancri, malformazioni e altro), scorrono le case. Si riconoscono quelle serbe, sono quelle distrutte.
Ci raccontano, come accadrà spesso ascoltando anche altra gente, che gli unici dissapori reali tra albanesi e serbi del Kosovo erano per la religione diversa. Ad un tratto, ci taglia la strada un copertone lanciato da chissà dove. Un augurio di buon viaggio da parte di qualcuno?

Arriviamo al Monastero di Visoki Dečani, protetto dai militari italiani. Ci presentiamo e, con molta cortesia, fatti gli accertamenti e ritirati i passaporti per il controllo, ci lasciano entrare. Ci accoglie padre Pietro, che parla un po’di italiano e, con grande gentilezza, ci consente di fare fotografie all’interno (in genere non si può).

Tanta bellezza, ancora una volta, riporta alla mente tutti i monasteri fatti a pezzi durante i bombardamenti e le aggressione dei terroristi e anche dopo, nel 2004, assaltati e bruciati. E Vladimir che rabbioso mi mandava le foto, scattate di nascosto, delle macerie del cuore antico della Serbia. Alla fine della visita della chiesa, padre Pietro ci regala il libro, in italiano, sulla storia del monastero. Ne approfittiamo per comprare delle icone (maternità) da riportare in Italia. Prima di accomiatarci passiamo in refettorio, un lungo terrazzo. Ci viene offerta la rakja, il caffè, e acqua di sorgente. Cui segue la jabuka, prodotta dai monaci, e biscotti.


Padre Pietro ci mostra un libro dove, nel 1941, militari italiani scrivevano a ricordo dell’accoglienza ricevuta, e della speranza che, finalmente, la giustizia avrebbe trionfato. Era il 1941; a poca distanza, Kragujevac, i nazisti massacravano 20/30 mila serbi, con intere classi di scuola elementare. E’ ancora il paradosso, che Alessandro coglie subito (vedi http://zdravodaste.blogspot.com/2008/10/dovere-di-insegnante-dovere-di-uomo.html).
Nel 1941, durante la guerra, gli italiani proteggevano questo monastero dagli albanesi; l’augurio del Maggiore, scritto sul libro “in una serena ora di pace, con la sicurezza che presto la giustizia trionferà”, ha un sapore beffardo.

Lasciamo il monastero salutando i militari, e proseguiamo. Ci dirigiamo verso una delle enclave serbe circondate dal territorio ormai indipendente. Il senso di questa indipendenza lo danno i numerosi edifici, pompe di benzina, alberghi ma anche negozi, dove la neonata bandiera del nuovo Kosovo è sempre affiancata da quella dell’Albania. E anche da quella americana, a volte accompagnata da quella inglese, della Nato e dell’Unione Europea.

Arriviamo al villaggio di Goraždevac, dove intervistiamo il capo villaggio, in pratica il sindaco; ci racconta degli sforzi per riportare un po’ di tranquillità e per continuare a cavarsela in questa situazione così complicata. Parla con fierezza, rivendicando anche una maggiore tranquillità rispetto al passato. Ma i problemi sono parecchi. La presenza degli italiani è tranquillizzante e ha contribuito alla loro protezione, ma forse adesso potrebbero farne a meno. Tra le domande di Alessandro e la traduzione di Jelena, c’è il ricordo di quando, nel 2004, due bambini vennero ammazzati lì vicino. Stavano facendo il bagno nel fiume, vennero uccisi a colpi di mitra. Ricordo che mi trovavo a Belgrado, ricordo il lutto nazionale e la rabbia impotente di tutti.
Il contenuto di questa e delle successive interviste sarà l’oggetto del video che prepareremo, a me resta in mente il volto di queste persone, la loro voglia di non mollare. E’ qui che comincia a formarsi una nuova idea, la voglia di estendere i progetti del ‘Ponte per’, i sostegni a distanza, anche a questi villaggi. Con tutte le difficoltà che comporterebbe, certo.

Seconda enclave, Brestovic; il capo villaggio ci accoglie in una specie di fattoria, con bambini che fanno prima capolino e poi si avvicinano, divertiti e incuriositi dalla telecamera che li riprende. Compare anche una vecchietta, con tanto di sigaretta in mano, che si avvicina a prendersi cura dei più piccoli.

Facciamo una passeggiata per questa campagna, incrociamo altri pochi anziani, la storia è sempre la stessa: la grande resistenza di chi non vuole arrendersi, che vorrebbe non essere lasciato solo da quelli che invece non ce l’hanno fatta o sono stati costretti a fuggire in Serbia. Quelli che stanno vendendo le case agli albanesi, finendo per legittimare anche sulla carta quella che è stata la vera pulizia etnica operata nel Kosovo dalla Nato, a danno della minoranza serba. E’ un tema, quello del malumore verso chi se ne è andato, e non torna, e vende le sue proprietà, che si ripeterà per tutto il viaggio. Ancora paradosso, quello di chi è costretto a provare rancore verso i propri fratelli, perché ormai prendersela coi criminali è inutile.
Ci salutiamo brindando con la solita rakja.
A Peć, ci fermiamo a cenare in un ristorante che espone all’interno la bandiera albanese. Pollo e Vranac, l’atmosfera è distesa, davvero sembra che tutto sia normale, anzi normalizzato.
La terza rakija (chi pensa sia un’esagerazione dovrebbe conoscere l’importanza rituale di questa bevanda per i serbi) la beviamo a casa del nostro accompagnatore. Ci si ferma ancora un po’ per ricordare… di quando i militari italiani presidiavano il cimitero, dove si erano asserragliati i serbi per evitare che venisse bruciato. O quando, sempre i militari italiani, nel 2004, evitarono all’ultimo istante che i serbi chiusi dentro un centro collettivo venissero bruciati vivi.
Nel 2004 non si poteva ancora uscire senza scorta. Era solo cinque anni fa.

Ci accompagnano in una casa per dormire, lascio la telecamera. Ancora una sorpresa, la moglie ci ha preparato dei muffin tipici del luogo, e c’è anche il classico yogurt. Una bella sorpresa. Meno bella la sorpresa della serratura, che non funziona. Più per goliardia che per reale protezione, blocchiamo la porta con un paio di sedie prima di andare a dormire. Ma senza eccessiva preoccupazione, del resto siamo nella casa dell’unico poliziotto serbo che lavora in questa parte del Kosovo…


25 giugno


Gusta mi magla padnala, more, na toj mi ramno Kosovo.
La nebbia densa scende sulla piana del Kosovo.


Ništa se živo ne vidi, more, do jedno drvo visoko.
Pod njeg mi sediv terzije, more, oni mi šijev jeleče.

Non puoi vedere in giro un’anima vivente. C’è solo un albero molto alto.

La mattina dopo, colazione con l’immancabile rakjia (sì, qui si beve anche a colazione prima del pasto) e poi, sotto la pioggia, e con il passaggio continuo di camionette della Kfor italiana che ha la base qui vicino, andiamo a visitare qualche altra casa. Vediamo case abbandonate e ancora distrutte, le riprendiamo con l’idea che qualcuno, quando pubblicheremo il lavoro, possa riconoscerle.

Belo Polje: vediamo il cimitero, del quale si osservano ancora i segni della distruzione operata durante gli scontri, poi andiamo parlare col capo del villaggio, dal quale (altra rakja) ci tratteniamo a lungo. Lui è tra quelli che, con più forza, vorrebbe il ritorno dei serbi in Kosovo. Anche Kosovo indipendente, ma con i serbi. Il paradosso che incontro qui merita una spiegazione, perché non è un paradosso vero e proprio. Il vicino albanese che è in visita dal capo del villaggio serbo, è la normalità che è sempre stata negli anni in cui il Kosovo era Serbia a tutti gli effetti. Se oggi appare un paradosso, è solo grazie a chi ha modificato l’opinione comune con slogan e menzogne. Accomunando i tagliagole (dicitura degli stessi statunitensi) che assassinavano i poliziotti serbi di stanza nel Kosovo, ai residenti albanesi che il più delle volte non avevano nulla a che fare che la pretesa di indipendenza di un Kosovo a cui, ci racconterà madama Dobrila, Tito aveva dato Università con professori albanesi e fabbriche. E dove gli albanesi godevano di diritti che oggi sono invidiati dalla minoranza serba. Ecco, l’albanese in visita beve con noi, parla e annuisce quando si parla dell’amicizia che c’era tra i kosovari serbi e albanesi. Con gli albanesi venuti dopo, è un’altra storia, e non potrebbe essere altrimenti.


Il capo villaggio serbo e il suo amico del villaggio albanese che è andato a trovarlo. A sinistra, Jelena.

Salutiamo e andiamo a parlare, dopo aver visitato la chiesa locale e osservato le devastazioni del cimitero vicino, con alcuni rappresentanti della comunità del villaggio, giovani e anziani. Una lunga chiacchierata, prima del commiato.

Andiamo allora alla base militare, il Villaggio Italia, che sovrasta Belo Polje; spengo la telecamera e chiediamo informazioni all’ingresso; anche in questo caso ci chiedono le credenziali, poi esce un tenente colonnello addetto alle relazioni, giornalista, col quale scambiamo due chiacchiere. Parliamo, tra l’altro, del ventilato trasferimento di un numero consistente di militari italiani dal Kosovo per andare in Afganistan (ma ci dicono che questo è un problema sul quale decidono i militari), e, informalmente, della situazione della regione. Ma per parlare meglio sarà necessario tornare, magari col pretesto di una spaghettata tra italiani, fuori dalla base.



Prossima tappa, il patriarcato di Pec.
Presidiato anche questo, ancora da italiani (cosa che si rivelerà gradita da tutti, come ci confermerà più tardi ‘la madame’). Tra di loro, delle ragazze molto giovani, e forse è un paradosso anche questo, vederle così armate, ma è un paradosso sul quale adesso non mi interessa soffermarmi.
Il patriarcato di Pec, come ci dice la guida in italiano che compriamo prima di andarcene, “è situato sulla riva sinistra del fiume Bistrica, al suo sbocco nella gola del massiccio Rugovo.

E’ uno dei più importanti monumenti del passato serbo; qui si trovava la sede storica degli arcivescovi e patriarchi serbi durante i secoli. Fin dal Duecento, il Patriarcato adunava i dotti teologi, eminenti letterati e artisti di talento, che hanno lasciato testimonianze della loro attività”.

Pomeriggio dolce assolato terso
Sotto un cielo slavo del Sud
Slavo cielo del Sud non senza grazia

Il complesso è indescrivibile, le sensazioni non si possono mettere su carta. La grande bellezza naturale dei giardini e dei corsi d’acqua all’esterno, quasi un paesaggio zen, non fosse che per gli alveari e il cimitero accanto alle chiese, è un meraviglioso accostamento con la bellezza delle opere all’interno del complesso. Il giovane soldato che ci lascia all’entrata, parla con molto rispetto della ‘madame’ che ci accoglierà.


E madama Dobrila è un’apparizione da romanzo, un personaggio che emana autorità e serenità al tempo stesso. Salvo poi quando agiterà nervosamente il bastone che porta con sé, perché in un paio di occasioni pronuncio nomi evidentemente sacrileghi all’interno della chiesa principale.
Forse il silenzio sarebbe meno oltraggioso che riportare parzialmente l’incanto e la grande lezione di storia e teologia che la signora ci impartisce… dopo averci chiesto se avevamo le basi delle sacre scritture, perché quanto ci racconterà, che è impresso nelle pareti, nei dipinti e in ogni centimetro di opere d’arte, è storia della Serbia e storia del cristianesimo, non solo di quello ortodosso. Le rispondiamo, a domanda, che abbiamo una mezz’ora di tempo, e ci fa capire che è davvero poco, comunque…

E’ una storia affascinante, una lectio magistralis che rimpiango di non poter registrare. L’entusiasmo mi gioca un paio di brutti scherzi; la prima volta (cercando di ricordare disperatamente quel piccolo trattato sulla religione serbo-ortodossa che avevo scritto per un lontano esame universitario) confondo l’immagine divina (dell’uomo) sulla quale insiste tanto la madame, con la natura divina (dell’uomo). In questo caso mi riprende con benevolenza. Meno benevola mi appare quando la prima volta, nel mezzo del racconto della storia delle vicissitudini serbe, nomino i turchi. E ancora di meno quando, a conferma di coloro che, dopo la seconda guerra operarono i grandi cambiamenti in Jugoslavia, nomino Tito. Lei mi chiede perché mai non capisco quello che dice. Ma la sua storia, la sua interpretazione della storia è davvero seria. Per lei è importante quell’immagine di Dio che l’uomo è; averlo dimenticato, ci dice a più riprese, ha reso gli uomini insensibili nei confronti del prossimo. Quanto alla distruzione progressiva del Paese, insiste sul fatto che ‘siamo stati noi a preparare tutto questo’. Non parla solo dell’Europa unita, ma di chi ha favorito le condizioni perché in Kosovo si arrivasse a questo. Perché adesso, i nuovi governanti del Kosovo, chiedono la tutela del patriarcato all’Unesco (un bel colpo per il turismo), come se non ci fossero mai state le distruzioni anche recenti dei monasteri serbo-ortodossi. Come se da noi un giorno, il Lazio divenuto a maggioranza musulmana divenisse indipendente e il governo richiedesse la tutela del Vaticano. Ma questo è un esempio davvero poco congruo, perché la nostra storia non ha nulla a che fare con quella serba, anche la storia della religione. Se il Vaticano è sempre stato in conflitto o comunque separato coi vari imperi succedutisi in Italia, la storia della chiesa serba-ortodossa nasce insieme alla storia della Serbia. San Sava (Свети Сава), figlio del condottiero e fondatore dello Stato medievale serbo Stefano Nemanja e fratello del primo re serbo Stefano Prvovenčani, fu il primo arcivescovo serbo (1219-1233), una delle figure religiose, e storiche, più importanti nella Serbia. Il patriarcato sottratto alla Serbia, è un oltraggio che noi non possiamo comprendere.

Mentre continua nel suo italiano addolcito dal francese (dote del marito), madama Dobrila racconta della concezione teologica della chiesa, ci parla proprio di Sava, del suo ‘non giudicare’.
Mentre i minuti scorrono, e sarà ben più della mezz’ora preventivata, ci racconta un pezzo di storia italiana, parlandoci di Anna Dandolo, e di Venezia. Anche in questo caso ricordo il professore di Storia moderna, all’università, che cercava i segni documentati di un collegamento tra Italia e Serbia, molto meno vaghi di quel che sembra.
Per madama Dobrila, l’impero turco è stato diverso da altri imperi, romano, bizantino, austroungarico; secondo lei (opinione condivisa da molti serbi), la battaglia del Kosovo del 1389 fu una tragedia che portò a 300 anni di stagnazione, anche se la fine dell’imperò serbo contribuì a bloccare l’avanzata turca che si prefiggeva di raggiungere Vienna. All’indomani della fine della dominazione turca, le donne, che ancora andavano in giro col velo, ebbero sei mesi di tempo per toglierlo. E tuttavia, perfino allora, vennero per lo più rispettate le chiese e la religione degli sconfitti. In una delle chiese all’interno del patriarcato, madama Dobrila ci mostra alcuni reperti che gli italiani hanno sottratto al saccheggio nei monasteri bruciati. Non per la prima volta, sentiamo lodare la sensibilità dei nostri militari che, unici in questo senso, hanno anche fatto delle copie e catalogato tutti i reperti in attesa di restaurarli. Sulle porte di questa chiesa c’è l’Arcangelo Gabriele, e la sua spada indica l’impossibilità di predicare al di fuori della parola del Vangelo, all’interno della Chiesa. Mi segno un appunto su qualche futuro lavoro sulla comunicazione e l’importanza della Parola, che prenda spunto da questa concezione, che vorrei approfondire.
Quando usciamo, perché ci vengono a prendere, dopo aver ricevuto in dono un’immagine della Maternità e aver comprato altre icone, salutiamo madama Dobrila, che ci dice della beneficenza fatta dal monastero con i fondi e gli aiuti che arrivano, per le famiglie dei dintorni. E con Alessandro ci ripromettiamo di tornare senz’altro, magari proprio fa un paio di settimane, quando torneremo a Kraljevo con i ragazzi.
Salutiamo i militari e le militari italiani, penso al mito degli ‘italiani brava gente’ che, forse, è un altro paradosso alla luce di tanti fatti atroci dei quali siamo stati protagonisti. Gli aerei che partivano da Aviano coi papà che portavano i bambini piccoli a fare ‘ciao ciao’ agli aerei (belle immagini da televisione!), ma anche a quelli aerei italiani che, passando sopra le postazioni serbe (così si racconta da queste parti), evitavano di bombardare, mentre i serbi evitavano di sparare. Quanti aerei italiani hanno contribuito ai bombardamenti dei reparti di neonatologia, degli acquedotti, non lo so. Accanto al mito degli italiani brava gente c’è, in fin dei conti, anche la storia degli italiani ‘palikuca’ (appellativo dato dai montenegrini agli italiani nella seconda guerra mondiale: ‘incendiari’, ‘bruciatetti’). Forse però è anche riduttivo dire che la natura umana è uguale ovunque, o che i soldati sono comunque soldati. I fatti sono fatti, e i fatti dicono che la gente, qui, apprezza i militari italiani più di altri, e i militari che ho conosciuto in Italia, tornati dal Kosovo, hanno tutti confermato che gli è bastato poco per capire, una volta sul posto, chi era a dover essere protetto.
Ci aspetta il pullman, ma c’è chi si lamenta perché è ora di pranzo, così facciamo una sortita in un locale dove compriamo dei giganteschi panini pieni di ćevapčići (salsiccette tipiche). Scoprendo che anche nel Kosovo indipendente si può mangiare, e bene, quella che considero una ragione sufficiente per tutti i viaggi in Serbia (insieme a tutte le altre prelibatezze culinarie e non solo). Il panino, che sembrava gigantesco, dura pochissimo.
Attraversando il ponte di Mitrovica

E’ sera quando torniamo a Kraljevo da Novka e famiglia, e ci incontriamo con le altre volontarie che hanno già provveduto a distribuire i sostegni alle famiglie dei bambini, che domattina porteremo in Italia. Solo che ‘domattina’ significa ‘due di notte’, e passiamo le poche ore che restano a giocare ad un anomalo poker, con Alessandro e Marko ‘l’artista della vita’ (http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.com/2008/09/sabato-20-settembre-2008.html), cui si aggiunge, con il consueto entusiasmo, anche Novka.
Alle due, dopo i preliminari saluti e gli inviti di Jordanka al sottoscritto ‘devi cantare!’ (ormai è proverbiale la mia passione per le canzoni serbe), si parte per l’Italia, con l’autista ormai collaudato Rade (che per il soggiorno italiano ha pensato giustamente di portare con sé la compagna).

26 giugno
Bimbi, ma soprattutto ragazzi e ragazze ormai adolescenti, molti parlano italiano, dopo tante vacanze romane, quasi tutte/i lo capiscono. E per i dubbi lessicali c’è Ana. Perdiamo parecchio tempo alla frontiera croata per il controllo passaporti. Fotografo il paesaggio croato (lo stesso cielo, slavo del sud).
Cielo slavo della Croazia

Alle 11,30 circa siamo a 152 km da Ljubliana. Si dormicchia scomodi, col sottofondo di musica e film comici, serbi.
Intorno alle 16, lo slavo cielo del sud (l’ultimo pezzo, sloveno) lascia posto, si fa per dire, all’italico cielo del nord.
Cielo slavo della Slovenia

Arriviamo a Venezia sul tardi, e ci incontriamo con gli altri, che ci stavano aspettando.

L’idea di girare un po’ per Venezia è fortunata, visto la tempesta della mattina dopo. Sistemato tutto in ostello, usciamo accompagnati da Giandomenico e da Marina, serba che parla italiano meglio di noi e illustra ai ragazzi (come a scuola, sono le femmine ad essere più interessate, ma perché?) bellezze e storie di Venezia.


E’ tardi quando ci lascia, e restiamo con Giandomenico ad ascoltare le storie su Venezia meno divulgate dai libri. Storie di scommesse sulla tenuta del ponte di Rialto ai tempi della sua costruzione. Scommesse a causa delle quali dame (e non solo loro) sono state immortalate in qualche parte del ponte da architetti fin troppo gentili. Storie di dogi che facevano condannare i propri figli, se colpevoli. E dogi che, all’atto dell’elezione, erano mostrati al popolo con le parole ‘pesatelo, pagatelo e, se sbaglia, impiccatelo’. Potenti che erano costretti a fare i conti con il popolo, in un modo o nell’altro. Non potendolo anestetizzare da televisioni e giornali.
Grazie alla cortesia del proprietario di una pizzeria, riusciamo a mangiare un bel pezzo di pizza con tutti i ragazzi, malgrado l’ora tarda, dopodiché, un’altra istruttiva e affascinante passeggiata per la Venezia notturna, ci riporta all’ostello, dove passiamo la notte. Tra lampi e tuoni.

27 giugno
La pioggia è feroce, riusciamo a prendere il servizio navetta e arriviamo al piazzale del pullman. Si riparte. Stavolta per l’Abruzzo terremotato, a portare solidarietà e cercare collegamenti, fin troppo amari, tra le case distrutte dalle bombe e quelle distrutte dalla vergogna di chi doveva costruirle.
Circa a un quarto alle nove (di sera) usciamo dal traforo del Gran Sasso. Continuo a fotografare nuvole, ma l’aria si sta facendo più scura. Arriviamo finalmente, piuttosto stanchi, nella tendopoli vicino Novelli, dove ci stanno aspettando i militari e i cuochi. I militari della Folgore ci spiegano come sistemarci e ci mostrano le tende dove saremo alloggiati. E poi a cena. Dove finiremo per brindare ancora con la grappa serba e a familiarizzare con militari e cuochi.

Rakija ovunque

Un momento di condivisione intenso e, tutto sommato, solo apparentemente paradossale. Perché si parla di humanitas, di là da divise e ideologie. Un militare ci mostra i cagnolini che hanno salvato (insieme a un pony e un paio di cinghiali). Un altro, ci racconta con un po’ di amarezza del non eccezionale contributo della maggior parte della gente del paese, ma c’è anche un anziano che va ad aiutarli, in quel campo che, va detto, è un esempio di organizzazione ed efficienza, unite ad una grande gentilezza. Così, dopo una notte che mi rievoca piacevolmente (altro paradosso, questo fascino per certi ricordi) il passato militare, meno piacevole solo per il russare di uno dei compagni di viaggio… paradosso o no, la mattina dopo riprendo l’alzabandiera dei militari della Folgore.

28 giugno
C’è un campo di calcio, l’avevamo visto subito, appena arrivati. E dopo colazione si comincia subito a giocare col gruppo di musicisti napoletani che, come noi, parteciperanno alla manifestazione culturale nel paese vicino. Lotta impari, perché i giovani serbi (più qualche italiano), sono assistiti dal tifo delle ragazze (e anche, ma sì, dalla perizia tecnica di Alessandro allenatore da fuori campo, bravo soprattutto a incitare con urlacci il figlio). Ma la partita è bella, e la sconfitta dei napoletani onorevole. Finisce circa 11 a circa 4.
L’allegria romano-serbo-napoletana esplode nei balli improvvisati, prima di partire sul pullman dei Vigili del Fuoco. Strumenti popolari, sintesi di kolo e tarantelle, militari che partecipano emotivamente (ma non ballano).

Ci si sposta sulla panoramica terrazza del paese vicino, dove era prevista la manifestazione; ci sono autorità e manca la gente. Ci accolgono i clown degli ‘artisti aquilani’; dopo pochi minuti ci ritroviamo tutti possessori di uno splendido naso rosso. Tra balli e canti dei napoletani, su un palco che poi diventa palcoscenico per tutti, tra bolle di sapone, palloncini, il sole che per la prima volta splende (ma durerà poco), le bambole fatte con i papaveri, delle quali Samantha pretende il copyright (valga questo scritto come attestato), risate e poi ancora balli e risate e canzoni, le forze dell’ordine che assistono in disparte (ma un naso rosso se lo metterebbero anche loro); passa così la mattinata.




Rallenta il mio respiro
Scende in profondità
Si adatta al soffio del mondo

Si torna al campo, dove i ragazzi riprendono a giocare a pallone (rinuncerebbero anche al pranzo speciale preparato per la domenica). Stavolta, ci buttiamo nella mischia con Alessandro.
Il pranzo è ottimo (e abbondante), la seconda bottiglia di rakija è immolata alla solidarietà con i militari e il personale protagonisti della tendopoli, il calore (alcolico e umano) distende le discussioni col militare leghista col quale si discute cordialmente (i ‘politici’ di oggi non ci riuscirebbero mai), ed anche il capitano dei paracadutisti che somiglia a D’Annunzio partecipa al brindisi. Finale degno di questo viaggio, un’ora di balli e spettacolo improvvisati, tutti insieme, mentre arrivano anche i carabinieri e qualche persona del paese osserva dai tavoli, tutto in grande allegria.

Va via così, anche la rakija che Ale versa a terra, terra che in realtà è il pavimento del campo da tennis dove è stata allestita la mensa, in ricordo dell’amica serba scomparsa, che nella tradizione serba partecipa in questo modo al brindisi. Le origini pagane dei serbi, sempre rivendicate senza problemi pur dopo la conversione al cristianesimo, anche nel kolo, il ballo in cerchio dove sono presenti le anime delle generazioni presenti, passate e future. Ale, comunque, si offrirà di ripulire.
Forse è il caso di parlare ancora di paradosso. Di quella simpatia che accomuna persone così diverse; ma non è un paradosso, per noi, provare stima e riconoscenza per persone che esprimono idee così agli antipodi. Non è paradosso, è ancora humanitas. E viene da pensare che i paradossi andrebbero finalmente risolti tutti, o smascherati.
Il paradosso è ciò che contrasta con l’opinione comune. E’ vero che ne abbiamo incontrati molti, ma perché accontentarsi di lasciarli così? Il paradosso partecipa della natura dell’enigma, semmai, non del mistero, e gli enigmi si svelano. Basta avere gli strumenti: prima di tutto la logica, poi la corretta informazione. Basta anche la logica, se l’informazione è carente o falsa (a qualcuno non sfuggirà il riferimento a una più idilliaca poesia della Dickinson).

Siamo a Roma. A Tor Vergata ci aspettano le famiglie che ospiteranno le ragazze e i ragazzi. La prima parte di questo viaggio si conclude.


Mi
Distendo
Aprendomi
Tensione verticale

Il paradosso che ci fa credere che sia il sole a muoversi, si svela quando la scienza lo spiega. Il paradosso che dal Kosovo fossero i residenti albanesi a fuggire, mentre oggi non ci sono quasi più serbi, poteva essere risolto prima, con la logica, perché l’informazione è stata criminale. Bastava sapere un po’ di matematica, per capire che il numero di profughi non poteva essere pari, più o meno, a quello dei residenti. Bastava analizzare con la logica le cifre fornite dall’informazione. Bastava guardare meglio le foto delle centinaia di fosse comuni su giornali (sedicenti di sinistra) per accorgersi (come qualcuno ha fatto) che erano false. Oppure chiedersi, a guerra finita, che fine hanno fatto. Qui non si tratta di paradosso, se la gente è ancora convinta che andava liberato il Kosovo dalla pulizia etnica serba; si è trattato di un’operazione di criminalizzazione funzionale. Il giorno prima, l’UCK era definito ‘banda di tagliagole’ dall’amministrazione statunitense, il giorno dopo la Albright li investiva dell’onore di diventare ‘esercito di liberazione’. Contraddizione sbattuta in faccia al mondo, ma l’opinione pubblica non ci ha neanche fatto caso. La Albright, che agli studenti americani, che le chiedevano conto del mezzo milione di bambini morti in Iraq causati dalla prima guerra del Golfo, rispose che era ‘il giusto prezzo da pagare’. Quanto al Kosovo liberato, c’è solo da invitare a rivedere o vedere il servizio della Rai, su Kosovo e narcotraffico, andato in onda pochi mesi fa, per capire a chi è servita questa indipendenza ottenuta a colpi di uranio impoverito, che sta facendo vittime di cui nessuno parla. E magari qualche paradosso scompare. Non è paradosso che il grande orgoglio serbo, le grandi rivendicazioni di appartenenza del Kosovo, terra a loro sacra, si frammenti nell’amarezza dei resistenti, contro quelli che adesso vendono le case agli albanesi anziché tornare, anche in un Kosovo non più Serbia ma almeno con più serbi, per contare di più, e i serbi che sono dovuti fuggire, che adesso hanno i figli cresciuti in altre realtà e che non ce la fanno o non possono tornare. Non è paradosso, si chiama guerra tra poveri. E anch’io, e me ne dispiace, sono costretto a sciogliere questo paradosso di aver parlato di serbi e albanesi dando forse l’idea che, sentirsi vicino a una parte, significhi essere contro l’altra. Certo, ricordando Don Milani anche io rivendico il diritto di decidere quale sia la mia Patria e quali i miei nemici. Ed anche per me, si gioca tutto sulla dialettica tra oppressi e oppressori. I popoli sono oppressi, e non me la sento di definire un popolo qualsiasi ‘oppressore’. Sono i governi a opprimere, e non credo che gli albanesi, da questo punto di vista, siano stati privilegiati, aizzati a questa guerra dai nuovi padroni del Kosovo e dai criminali internazionali di sempre. Tanti anni fa, io mi finsi albanese perché dei bambini (anche allora) abituati al disprezzo verso le ultime ruote del carro (al tempo erano gli albanesi, oggi, forse, i rumeni), imparassero a dissociare la persona dall’etichetta. E chi se li scorda i ragazzini albanesi, i loro genitori che lavoravano sodo, le maschere di carnevale che costruivo lì per lì perché non potevano permettersele… Nessun paradosso, chi è oppresso è oppresso, e non c’entra la nazionalità. I paradossi umani, quelli veri, nascono dalle sovrastrutture culturali che, nel bene e nel male, e spesso in modo drammatico, ci differenziano dagli animali. Ecco perché posso senza nessuna contraddizione solidarizzare e provare stima più per il soldato che vota lega che per tanti tromboni che, a parole, dovrebbero stare dalla mia parte. Perché condivido (certo, forse solo in quel momento, ma non è comunque un caso), nelle parole scambiate, negli sguardi e in particolari che appartengono alla più significativa comunicazione non verbale, il senso di una condivisione dell’umanità più vera. Tutto il resto, le reciproche opinioni politiche più o meno fondate, o travisate, da una parte e dall’altra, vittime o meno di false informazioni o false speranze, sono poca cosa. Il serbo e l’albanese che bevono caffè e rakija insieme, dove i giornali ci raccontano di odio feroce, il serbo cacciato dalla sua casa che nel 2000 (primo campo di lavoro) ci raccontava piangendo del suo vicino albanese che non avrebbe più rivisto; non c’è paradosso, c’è umanità, che non viene raccontata dalle televisioni, perché fa comodo alimentare l’opinione comune più becera. La popolazione francese, da sempre amica dei serbi, più ancora degli italiani (considerati un popolo fratello, e quanto male ha fatto ai serbi questo doppio tradimento!), era contraria alla partecipazione della Francia all’aggressione Nato. Aggressione, perché non ci fu dichiarazione di guerra, ma il rifiuto di firmare un accordo capestro. Una controversia internazionale, semmai, per la quale la nostra costituzione, articolo 11, vietava espressamente anche l’intervento dell’Italia. E così la televisione francese mandò le immagini delle mai trovate centinaia di fosse comuni, per settimane, e convinse l’opinione comune. Perché l’emotività, disgraziatamente, è più aggressiva della ragione. E’forse quella, a costringere qualcuno a commuoversi ascoltando ancora oggi ‘Vidovdan’, o che spinge poche persone a incamminarsi verso la piana dei merli, verso un Kosovo che è sempre meno Serbia, se non per slogan? Paradosso di una guerra definita umanitaria? Non confondiamo, quello non è un paradosso, è un crimine grammaticale e una vergogna per chi l’ha usato.
Basta la logica, dunque, ma richiede impegno. La mente resa flaccida dall’assuefazione a spettacoli grandefratellari e dalle fatiche di impegni per la sopravvivenza quotidiana, non sempre è disposta a faticare, e lascia passare quello che viene passato per verità ‘comoda’.
Ecco perché, nei monasteri che abbiamo visitato, ci ritroviamo, pur non credenti, incantati a guardare quelle immagini sacre, che raccontano di una storia umana e di una ricerca verso il trascendente che, comunque, è parte dell’uomo. Potremmo buttarla in antropologia, ma si peccherebbe all’inverso; negare senza dimostrare è come aver fede senza dimostrare. Entrambe le cose sono soggettive, e vanno bene finché non pretendano di imporre stili di vita agli altri. Così, le immagini iconiche della Madonna col bambino, che compriamo ogni volta, vanno comunque bene. Perché la maternità è l’espressione più umana che ci sia (anche se una lapide che ricorda un artista di Cortona vi aggiunge il martirio, la croce), e, non a caso, anche a scuola risolverebbe tante diatribe su crocefissi imposti. Tutto ciò che va ‘oltre’, riguarda il mistero, e la ricerca personale.
I paradossi sono smagliature di assurdità nel tessuto della conoscenza: dapprima ci fanno dubitare delle nostre credenze e poi ci spingono a ridefinire i nostri concetti. (Odifreddi)

Si conclude la prima parte della storia, perché stiamo per tornare in Serbia e Kosovo, per riaccompagnare quei ragazzi. E per raccogliere altre testimonianze, e forse andare a trovare di nuovo madama Dobrila, nel patriarcato di Pec. Continuo a pensare, chissà perché, all’immagine delle scarpe che lasciamo ogni volta fuori dalla porta quando entriamo in una delle loro case, e ai proprietari che, in quanto ospiti, ci invitano ogni volta a tenerle.

Un
Ultimo
Pensiero
Odora di te

Dopo tanti paradossi, chiudo con alcuni versi di una poesia, di Jovan Dučić. Me li fece conoscere una ragazza serba anni fa, me la ricordano due fiorellini gialli, sul pacchetto di un regalo che porterò a un’altra ragazza, che era piccola quando l’ho conosciuta nel 2001 e ci siamo 'adottati' come fratelli. Eravamo in un istituto minorile di Belgrado, durante un campo di lavoro. Molti di quei ragazzi, ormai adulti, sono i miei amici che mi aspettano ogni volta che torno in Serbia. Ragazzi e ragazze che, come Dzemilja, sono la parte più consistente del mio ‘cuore in Serbia’. A srce u Srbiji.

Ја не мећем на те ђинђуве са траком,
Него жуте руже у те косе дуге:
Буди одвећ лепа да се свиђаш сваком,
Одвећ горда да би живела за друге.
Io non metto su di te fili di perle ma
Rose gialle nei tuoi lunghi capelli
Sii talmente bella da piacere a tutti
E talmente orgogliosa per vivere per gli altri.


Pomeriggio dolce assolato terso
Sotto un cielo slavo del Sud pieno di grazia.
Vuk

2 commenti:

Anonimo ha detto...

bè si vede che sei parecchio informato però non quanto serve per esprimere un giudizio. la realta che stai proponendo non è che una minima parte della repubblica del kosovo, perciò per avere un quadro completo dovresti immedesimare nei rispettivi punti di vista di tutte le etnie che vivono in kosovo. questo non vuol dire che sono del tutto contrario a quello che hai dettoperò per la maggiorparte si.

Ste ha detto...

Scusa se rispondo solo dopo un anno. In effetti, non mi pareva di aver espresso giudizi, ho solo raccontato una realtà che non è conosciuta; se hai rilevato inesattezze ti prego di segnalarmele. Sui punti di vista si può discutere, resta il fatto che ad immedesimarsi nelle rispettive etnie dovevano essere altri ben più importanti del sottoscritto, a cominciare da chi ha scatenato una guerra usando falsi pretesti e menzogne ormai conosciute (le fosse comuni 'a centinaia' mi risulta non siano mai state trovate, e sono anche state smentite dai media americani). Io non faccio il giornalista, naturalmente,e ho raccontato una realtà che i giornalisti di professione hanno ignorato per interessi ben noti. Ho correttamente detto come la pensavo ma non ho alterato i fatti come hanno fatto in troppi; ho detto con piacere dei capivillaggio delle 'opposte' etnie che prendevano il caffé insieme laddove l'immagine che è stata falsamente riportata è che serbi e albanesi (kosovari) si odiassero da sempre. Grazie comunque per la tua opinione, e se vuoi la prossima volta entra pure nei particolari. A presto.