domenica 17 maggio 2009

Lezioni di grammatica. Le congiunzioni e il razzismo

Grammatica criminale? Paola Mastrocola è autrice di un romanzo, "La gallina volante", dove un’insegnante di liceo, in un dialogo con l’amica psicoterapeuta, sostiene che L’Io dei giovani d’oggi è irrimediabilmente destrutturato perché non fanno grammatica. Non sanno che cosa è importante in una frase e che cosa lo è meno, che cosa regge una frase e che cosa è retto, non distinguono tra una parola che fa da soggetto e un’altra che è soltanto un attributo. Allo stesso modo non sanno che cosa nella vita è importante e cosa non lo è, che cosa è un guaio marginale e cosa è una tragedia.
Una provocazione? Sempre nel libro si sostiene che Pietro Maso ha ucciso i suoi genitori perché a scuola non si insegna la grammatica. La tesi, neanche tanto assurda, è che
arrivano ragazzi disperati perché a tavola hanno avuto una fetta in meno di prosciutto rispetto al fratello, e di lì cadono in depressione e prendono psicofarmaci. La realtà è che non hanno alcuna conoscenza lessicale: conoscono la parola disperato e basta, e quindi la usano tanto per la morte del padre quanto per la fetta di prosciutto in meno. (…) Ci diceva di Pietro Maso, quello che ha ucciso i genitori per quattro soldi di eredità: alla tivù hanno intervistato un suo amico che ha commentato l’omicidio con queste parole: “Ha fatto una cazzata”. (…) Questo è il punto: i giovani non distinguono, posseggono solo la parola cazzata che va bene tanto per quando uno mette una mosca nella minestra della madre, tanto per quando l’ammazza a coltellate. Possiedono una sola parola per le cose, dunque le cose sono uguali. (…)
Pietro Maso ha ucciso perché gli insegnanti non fanno grammatica e non insegnano ad allargare il lessico. Ha ucciso perché uccidere è solo una cazzata, ha ucciso perché non sa che ci sono frasi principali e frasi subordinate e che le subordinate sono di diversi gradi.

Questo è un primo aspetto del problema-grammatica. Che qualcuno della ‘vecchia scuola’ potrebbe stravolgere sostenendo che, in effetti, è vero che oggi di grammatica se ne fa poca e che bisognerebbe ‘tornare all’antico’ e farne di più. Ma insegnare la grammatica non è un problema di quantità: i ‘quaderni pieni’ di analisi grammaticale, la grammatica la fanno odiare. Si tratta di farla meglio. Nei vari progetti di filosofia con i bambini, per esempio, si è sperimentato l’approccio filosofico alla grammatica, riprendendo le suggestioni di uno splendido libro che riportava esperienze analoghe nelle scuole medie: “L’ora di grammatica – Storie di studenti alla scoperta del linguaggio” (a cura del Centro di Ricerche sul Linguaggio e l’Educazione, Morlacchi Editore). In una classe Quarta Primaria, si è proposto di riflettere sulla forma dei segni di punteggiatura. Dalle affermazioni di alunne e alunni, è emerso che i due punti sono ‘due occhi’ che guardano chi sta parlando (quando si trovano prima della frase del discorso diretto), o che il punto è rotondo perché ricorda la forma rotonda di un insieme (matematico), perché racchiude (chiude) tutta la frase. E questo è solo un piccolo esempio. La grammatica può essere resa interessante e divertente anche raccontandola come un romanzo, come nel libro “La grammatica è una canzone dolce”, di Orsenna, dove, in un’isola, le parole sono organizzate in tribù, con le loro regole (logiche e grammaticali, appunto).
C’è poi un aspetto diagnostico che ogni educatore dovrebbe tenere in considerazione: le parole non vengono pronunciate a caso, il modo di esprimersi, soprattutto nei bambini (ma qualcuno estende il concetto integralmente a ogni tipo di comunicazione), può rivelare molto. Non solo a livello psicologico, non solo per la corrispondenza tra atrofia linguistica e atrofia affettiva, per citare le parole della prof.ssa Edda Ducci, docente di Filosofia dell’Educazione e Pedagogia (Università di Roma Tre e LUMSA). La grammatica è anche rivelatrice delle condizioni della società in cui si vive.
Qui, a voler pensar male, si potrebbe innestare la preoccupazione per un complotto dove certi “assassini” siano lieti che la grammatica si insegni a memoria, come nozione e non come strumento per strutturare la personalità, cioè educando alla libertà di scelta, libertà dannosa in una società di consumatori o di sudditi.
Ricordiamoci, per esempio, le “guerre umanitarie”.
Guerra-umanitaria è una bestemmia linguistica. Ricordiamo bene il silenzio di intellettuali e pedagogisti, quando si bombardavano acquedotti e reparti di neonatologia in Jugoslavia, col falso pretesto di fosse comuni successivamente smentite (come le - mai trovate - armi di distruzione di massa in Iraq, pretesto per un altro genocidio).
A nessuno sembrò indecente, quell’uso continuo di parole-concetti che entravano nella testa dei bambini. Bambini che crescevano convinti della validità di certi ossimori (bombe-intelligenti, guerre-umanitarie). Bambini che poi inventavano spontaneamente allegre canzoncine sui bombardamenti. Roba già vista, lo sappiamo.
Una guerra può essere necessaria, forse, ma non è mai umanitaria. E questo è un argomento sul quale noi adulti possiamo dissertare, il bambino ha meno strumenti concettuali, lui può semplicemente prenderlo per buono (magari perché lo dicono i grandi).
Classe di scuola primaria: “Perché hai colpito il tuo amichetto? Non ti aveva fatto niente!” – “Si, mae’, però mi sembrava che voleva colpirmi…”. A voi sembra solo una battuta? O quel bambino aveva già assimilato il concetto di guerra preventiva?
La grammatica è un indicatore della società in cui si vive, per esempio del clima razzista dei nostri tempi, che può emergere innocentemente da una congiunzione avversativa (ma) anziché copulativa (e).
Scrive un bambino in un giornalino scolastico, parlando della bella famigliola riprodotta in una foto (il tema è ‘La pace’): la mamma ha la pelle chiara, il papà ha la pelle scura e hanno quattro figli due sono chiari e due un po’ più scuri ma si vogliono tutti tanto bene.
Perché, nell’idea del bambino, la condizione multietnica di quella famiglia necessitava (più o meno consapevolmente, vista l’età) di spiegare che anche se di colore, si volevano bene lo stesso? Perché, nel suo mondo, fatto di televisione, di commenti azzardati degli adulti, di cori razzisti allo stadio, l’idea che ci si possa voler bene tra persone di colore diverso, persino in famiglia, non è scontata? Siamo convinti che la frase avrebbe un senso completamente diverso se, invece di un MA, ci fosse stato E? Sono di colore diverso E si vogliono bene; quell’E, congiunzione copulativa – che aggiunge – avrebbe significato che, essere di colore diverso e volersi bene, sono due cose con uguale connotazione (positiva). Il nome delle congiunzioni ne spiega la differenza: avversativa (che avversa) vs copulativa (che unisce). Sono gli adulti, gli educatori, i genitori (e i politici? Quali?) a doversi chiedere perché il bambino ha scelto quel MA, che indica la consapevolezza di stigmatizzazione (del colore diverso) che il bambino avverte nell’aria e che ha voluto probabilmente stemperare con una manifestazione di tolleranza, che in lui è inconsapevole, ma è colpevole nell’adulto (‘tollerare’ è troppo simile a ‘sopportare’).
Come mai nel nostro Paese, baluardo di democrazia, di civiltà e di accoglienza, con il ricordo di un passato dove gli italiani sono stati vittime del razzismo, un bambino avverte quest’aria?
Solo perché si proclama ai quattro venti (intesi come mass-media) che a qualcuno la multietnicità non piace (e i vescovi, e non solo loro, a ricordare che multietnici lo siamo da un pezzo)?
Solo perché, quando si parla di reati, si denota la razza ogni volta che non si tratta di un connazionale (ma secondo il Viminale, tra i violentatori, sei su dieci sono italiani)?
L’ultimo esempio di dialettica applicata alla criminalizzazione: giorni fa è stato dato risalto a dei presunti sciacalli rumeni che erano stati arrestati. A distanza di pochissimo tempo si è accertato che non avevano commesso alcun reato. La televisione ha dato la notizia; anziché scusarsi (e vergognarsi) per aver gettato inutilmente e avventatamente fango su degli innocenti, i giornalisti hanno specificato immediatamente che “anche se non si trattava di sciacalli, l’operazione ha dimostrato l’efficienza dei controlli…”. Complimenti. E poi dicono che l’Italia precipita nelle classifiche sulla libera informazione.
Forse, se i bambini annusano (e riportano) aria di razzismo, è anche per il continuo parlare di bambini strappati alle madri clandestine
(http://associazioneumoja.wordpress.com/2009/04/02/l%e2%80%99incubo-di-kante-in-ospedale-mi-hanno-strappato-il-bambino/), di bambini stranieri ai quali andrebbe negato il diritto alle cure e allo studio, perché figli di clandestini che vengono in Italia ‘solo per delinquere’. Genitori che poi, ogni tanto, muoiono al largo delle coste prima di arrivare, anzi, di essere rispediti al mittente. Qualche politico è convinto che tutta quella gente venga in Italia in gita turistica, gente ‘senza arte né parte’, in fondo.
(http://www.ilsalvagente.it/Sezione.jsp?titolo=Clandestini,%20la%20Camera%20dice%20s%C3%AC%20alla%20legge%20Maroni,%20Napolitano:%20).
Per avere il permesso di soggiorno, devi avere la fortuna di bloccare, con un atto di eroismo, un criminale (magari italiano), com’è successo di recente. Ecco, il dovere di accoglienza (tanto sbandierato quando ci si deve far belli rivendicando la cultura cristiana), non è più un dovere civile, ma un premio all’eroismo.
Intanto, mentre le leggi sull’immigrazione vogliono impedire ai bambini stranieri di frequentare le nostre scuole, nella scuola si farà meno grammatica, perché mancheranno gli insegnanti, letteralmente cacciati, mentre i pochi sopravvissuti dovranno occuparsi più della vigilanza che di banalità come la didattica o addirittura l’educazione (che non serve ad un popolo di consumatori né di sudditi).
Nel 1938-39, in Italia, ai bambini ebrei venne impedito di frequentare le scuole; nel frattempo, ronde che allora si chiamavano in un altro modo e avevano camicie di un altro colore, pattugliavano le strade per renderle più sicure. Ma questa diventerebbe una lezione di storia. Del resto, per chiudere con una citazione (Hegel), la Storia ci insegna che i popoli non imparano nulla dalla Storia.
L’anno 2008 si chiudeva con un genocidio e non c’era da stare allegri per il nuovo anno. Era però lecito almeno sperare che, raggiunto il fondo, in Italia e nel mondo si potesse, se non risalire, almeno fermarsi. Invece si è cominciato a scavare.