mercoledì 30 dicembre 2009
Ci sono persone che, dopo essere state massacrate da una visione della vita troppo ‘romantica’, diventano ciniche (almeno agli occhi del mondo). Anch’io tengo a distanza tutto ciò che sembra troppo sdolcinato, e cerco di non esternare più affetto di quello che mi sembra necessario, anche e soprattutto per non svilirlo o banalizzarlo. E detesto apparire ‘sentimentale’. Perché questa premessa? Perché ho letto un libro che mi costringe a lasciarmi un po’ andare ad un atto di affetto profondo, che rimandavo da tanto tempo. Ci sono libri che, in effetti, cambiano la vita, anche per me ce ne sono stati: ‘Il lupo della steppa’, ‘Illusioni’, ‘Un uomo’…. Stavolta è stato ‘Aprire su Paideia’; me l’aveva regalato uno degli autori più di un anno fa, ma evidentemente dovevo leggerlo proprio in questo periodo. L’ho letto per un concorso (altra coincidenza?), m’ha fatto riflettere sulla chiave di tutto il nostro educare e del nostro vivere. Ho capito, o me lo sono ricordato, perché non mollerò mai. Perché, almeno nel degradato, soprattutto umanamente, ambiente scolastico (ma è solo l’esempio di quanto avviene fuori), riesco a sopportare “gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua fortuna”, e anche tutte quelle cose che, meglio ancora di Shakespeare, fa dire Stefano Benni al personaggio di un suo romanzo:
“Mi rimane solo questo, maestro, questa dignità che è così poca ma basta a fare abbassare il loro sguardo, e questa è la strada, maestro, in cui io non trovai alla fine la mitezza che tu insegnavi. E chi difenderà ora le offese fatte a chi non può difendersi, e l’ordine al soldato impaurito e il dolore cancellato o deriso, porci servi di servi assassini ogni volta che siete cinici e parlate di realismo e siete egoisti e lo chiamerete buonsenso e grondate indignazione per i crimini altrui mentre ogni giorno preparate i vostri con cura, grazie dio perché uccido e non sento più nulla, ma io sento tutto e così ecco la mia strada buia, allora a me sì ma a Leone no, non dovevate farlo e neanche a Lucia, non vedete la crepa nel muro, le figure nella polvere, non si può sopportare tutto questo, dio dio come sei lontano da me, dio, non si può uccidere una persona così, questo cambia il mondo per sempre”.
Chi difenderà le offese? Soprattutto, da educatori, chi insegna davvero a difendersi dalle offese? Chi si preoccupa davvero di insegnare, tra le tabelline e la grammatica, a difendersi dalle offese della vita e del mondo? Quelle della vita sono inevitabili, quelle del mondo si potrebbero evitare, almeno in parte. Insegno a tutte le alunne e a tutti gli alunni, prima o poi, il motto “la vita è dura ma noi di più”, se lo ricordano quasi tutte/i anche dopo molti anni. Magari a qualcuna/o è servito. Ma cosa è servito davvero, cosa servirebbe davvero per fornire dello scudo, oltre che della spada, tutti questi esseri che abbiamo davanti e che pensano davvero che gli potremo essere d’aiuto? Questo libro che ho ‘dovuto’ leggere, m’ha spiegato cose che in fondo avvertivo ‘a pelle’. ‘Aprire su Paideia’ parla di chi ti cambia la vita solo per il suo ‘essere’ umano, perché mette quello, soprattutto quello, nel rapporto con chi educa, ed è per questo che è ricordato, non per aver insegnato qualche disciplina. Perché ha aiutato ad affrontare e capire un po’ meglio la vita, e forse l’ha capita meglio anche lui.
“Bella, mae’!” ; ###, l’ex alunno che mi saluta come un amico passando col motorino mentre io esco dal garage con la macchina. “Bella, ###!”, rispondo.
Quella che incontro e che deve fare l’esame di guida, io invece devo farne uno da supervisore all’università. Tutti e due con un po’ di tensione pre-esame. Lei ha lo stesso sorriso di quando faceva le elementari.
Sono due, tra le/i tante/i, non potrei smettere di scrivere se parlassi di tutte/i, perché me li ricordo tutte/i, ricordo cose che loro avranno dimenticato. E gli scambi su Facebook, che tante volte neanche coi miei amici…
La campionessa di kickboxing, che ‘qualcuno’ stava per massacrare da piccola in nome della ‘buona educazione’, e che mi ricorda sempre quanto siamo stati fortunati a incontrarci (anch’io, anch’io, ###...).
Quella che, ancora qualche anno dopo la fine della scuola mi rimproveravano che fosse la mia preferita, ed era solo quella che mi somigliava di più come carattere. E che poi, anni dopo, “Creonte aveva ragione”!
Quelle/i che vengono a trovarmi a scuola e rassicurano i miei alunni, e soprattutto le mie alunne, “anche a noi diceva che eravamo tutte cozze”.
Quello che, per quattro anni, ho avuto il dubbio se avessi sbagliato a fidarmi (mentre altre ‘educatrici’ mi suggerivano di stroncarlo, manco fosse un serial killer), e che adesso “Mae’ tu per aprirmi la testa sei stato fondamentale”. Ho fatto bene a fidarmi, poi viene a trovarmi con la sciarpa della Magica Roma, è cresciuto bene…
Quelle che facevo arrabbiare fingendo di non credere che scrivessero poesie così belle, “su, tira fuori il libro dove l’hai copiata!” – “Mae’, il libro non c’è!!” (poi abbiamo pubblicato le ‘Poesie del libro che non c’è’, naturalmente).
Quello col quale mi sono comportato peggio del sergente di Full Metal Jacket (con finale diverso per mia e sua fortuna) perché non trovavo più altre soluzioni per tirarlo fuori da un china pericolosissima…
Quella che per anni mi ha lasciato lettere e poesie nella cassetta delle lettere, che conservo tutte (conservo tutti gli scritti, prima o poi dovrò cambiare casa).
Quelli che m’hanno visto sotto shock perché m’era arrivato un sms non proprio gradito (la faccia perplessa di ### che aveva appena risolto un problema alla lavagna: “Mae’… il problema?”. Io, pallidissimo e completamente ‘fuori’: “Quale problema?...”).
Quella che imitava (terribilmente bene) tutte le mie fidanzate (vere, presunte o spesso solo attribuite), attaccandosi un cartellino col nome della prescelta e chiedendo con sguardo intrigante di farsi interrogare…
Quelli che, preso dalla commozione mentre parlavo dell’amicizia, prendendo ad esempio un episodio meraviglioso con un mio amico scomparso, hanno finto di credere che m’era entrato davvero un moscerino nell’occhio, quando mi sono assentato un attimo…
E i drammi, i dolori, quelli che gli adulti considerano ‘seri’ (separazioni, lutti, ecc…) e quelli che considerano ‘poco seri’ (innamoramenti, litigi con gli amichetti). Io non sono mai riuscito a distinguere molto, ho finito per pensare che il dolore è sempre dolore, mai ‘poco serio’. E per non sbagliare, ho rispettato e cercato di prendere sul serio, e di asciugare se potevo, tutte le lacrime, fregandomene se fossero dovute a cose ‘serie’ o ‘non serie’.
Quella che, mentre facevo lezione e parlavo dei sentimenti, cominciò a lacrimare. “Mae’, te capisco perché so stata appena mollata…”. Quel giorno ho smesso di fare lezione, e abbiamo parlato.
L’unica lezione che vorrei fare davvero bene, quest’anno, con le mie studentesse e gli studenti universitari future/i insegnanti, è proprio quella di capire che razza di categorie malsane continuiamo a mantenere nella scuola (e nella vita).
E ancora…
Ancora niente, magari aggiornerò l’elenco un po’ per volta, perché i ricordi sono davvero tanti, e i volti pure, quelli che vedo adesso ‘cresciuti’, e quelli che non vedo più. ‘Non vi conto più’ , dice Vecchioni, ma un giorno lo farò, proverò a scrivere un libro su tutti loro. O forse no, non ce la farei, solo un poeta bravo davvero potrebbe fissare i ricordi di qualcosa che è stato ed è così vivo.
Non ho mai pensato agli alunni come a dei figli, ma come a dei compagni di viaggio. Futuri amici, ecco, secondo la più alta idea d’amicizia, quella di Aristotele: l’amicizia che ‘o trova simili o rende simili’. Noi non eravamo simili, non c’è mai amicizia possibile se uno ha il potere e l’altro no. E io avevo il potere dell’insegnante (che tante/i maledette/i usano peggio dei criminali). Ora che, rispetto a loro, non ho più quel potere, posso pure andare a farmi una birra con loro o scherzare alla pari. Anche se loro continuano a chiamarmi maestro…ma posso sopportarlo.
E finalmente grazie, ve lo dico come augurio di buon anno e buona vita, vi voglio bene a tutte/i… mie e miei alunne e alunni, ed ex, e quelle/i che adesso sono su Facebook, e quelle/i che ancora devono andare alle medie: le mie e i miei attuali lupette e lupetti (che cercano continuamente di contattarmi su Messenger, non gli basta il reciproco tormento scolastico). La vera comunità educativa siete voi.
Vi saluto da zingaro (ho scoperto che forse, sotto sotto, è una mia aspirazione):
Per il cuore che vi ho dato.
E per quello che mi avete dato voi.
Stefano
lunedì 7 settembre 2009
Ciao Maurizio. Ciao compagno, fratello, amico, poeta.
Tutto questo ormai è storia, ed un pezzo di quella storia stanotte è andato via. Mi piacerebbe pensare che ha raggiunto Francesco Babusci, partito un po’ prima, e naturalmente Maddalena, la sua compagna di vita. Se il paradiso è un’invenzione, è in questi momenti che se ne comprende l’esigenza. Perché mai, come adesso, vorremmo pensare che quel grande cuore di Maurizio Conte, ‘Bud’ per gli amici, i compagni e i fratelli, batta ancora in qualche modo, in qualche forma. Però, Maurizio, il paradiso lo voleva sulla terra, soprattutto per gli sfruttati, per gli ultimi, e lottava per questo. L’ha fatto soffrendo, contro nemici e contro presunti amici, ma è il destino di ogni anima grande. Lui, che veniva da DP, affermava con fierezza di essere un ‘aspirante comunista’, perché aveva rispetto per un’idea che molti ‘comunisti’ usavano come ornamento o come giustificazione, o pretesto. Si condivideva, con Maurizio, l’orgoglio di essere l’ala più ‘libertaria’ (o ‘freak’ come dicevamo scherzando) del gruppo. Non perché le analisi politiche di Maurizio fossero meno lucide di altri, ma perché partivano dalla persona, dall’uomo, non dall’economia (una lezione che i sindacati hanno dimenticato da tanti anni, le ultime notizie di prossimi accordi tra confindustria e sindacati ne sono ulteriore evidenza).
Non ricordo tutte le poesie di Maurizio, so che i ricordi arriveranno uno dopo l’altro, a pezzi. So che ho guardato le fotografie che ho a casa, in un pannello attaccato alla parete con alcuni momenti significativi del mio passato. In quel pezzo di storia che riguarda quegli anni della fabbrica, nelle foto lui c’è sempre, una foto davanti al Presidio bruciato per la settima volta da ‘ignoti’, un’altra durante le feste organizzate davanti alla fabbrica per far venire la gente, le famiglie senza più uno stipendio. E quella poesia per la festa della donna, quando volantinammo distribuendo mimose alle operaie e impiegate che entravano mentre noi eravamo ancora là fuori. Altri ricordi arriveranno. Non so se esiste un paradiso per chi ha lottato e per chi ha combattuto per i poveri, per gli ultimi, per la gente sfruttata. Nell’attesa, Maurizio, sei nel nostro cuore e nella nostra anima. Ciao compagno, fratello, amico, poeta. Per te, in questo momento, non ce la faccio a scrivere una poesia. Posso solo spezzare la penna e abbracciarti.
sabato 25 luglio 2009
Sinfonia per cori ortodossi e lacrime. (Kosovo, parte seconda).
Se il viaggio precedente aveva nel ricordo, come sottofondo, le note e le parole dei CSI, questo secondo viaggio ha una musicalità diversa, e vissuta. E’ la musica delle voci dei monaci di Decani, e quella del pianto di Jordanka, che è venuta con noi in Kosovo insieme alla più piccola delle sue quattro splendide figlie, a rivedere la sua terra e quella casa nella quale vissero solo sei mesi, col marito (scomparso successivamente) e le cinque figlie (il destino avrebbe colpito anche la più grande di loro). I suoi dodici ettari di terra in Kosovo, di fatto, non le appartengono più; qualcuno ci ha anche costruito, naturalmente senza chiederle il permesso. La casa è completamente distrutta; la lasciarono fuggendo in fretta e furia, insieme a migliaia di altre famiglie di serbi (a proposito di pulizie etniche). In questo viaggio straziante, ma in qualche modo inevitabile, Jordanka ha potuto anche piangere sulla tomba del nipote, ammazzato a 18 anni dai ‘liberatori’. E io non ho potuto fare a meno di documentare e fotografare anche quei momenti, quella disperazione, quell’abbraccio e quelle lacrime, e le sue parole sulla lapide del cimitero serbo all’interno del Kosovo indipendente. Ma sono documenti, foto e storie che non riporterò in questo contesto, per motivi che a me sembrano scontati: perché il rispetto per l’essere umano viene prima di qualunque diritto di cronaca (cosa che non impareranno mai, certe squallide figure di famose trasmissioni nostrane), e poi, perché voglio bene a Jordanka e alle sue figlie, e raccontare certe storie, certi dolori atroci, senza mancare di rispetto o banalizzare, forse è anche possibile, ma servirebbe un poeta, di quelli bravi, di quelli veri. Io non me la sento.
Il viaggio per riaccompagnare i ragazzi a Kraljevo è stato più faticoso dell’andata. Colpa del torneo di calcio organizzato due giorni prima alla cooperativa Capodarco (Grottaferrata), per chiudere in bellezza le vacanze romane dei ragazzi. Ne siamo usciti tutti coi muscoli a pezzi (e le gambe massacrate dai pappataci). Un viaggio lunghissimo (circa 24 ore, quando in macchina sono 17) perché Rade rispetta le regole, la velocità massima consentita e le soste. Malgrado la durata estenuante, restiamo più d’uno con l’amaro in bocca per non aver saputo come va a finire il film jugoslavo proiettato dal monitor del pullman (ritroveranno la bella Galina, i nostri eroi? Mah…).
Ci fermiamo da una famiglia per lasciare i soldi di un sostegno a distanza, e poco dopo, di nuovo, attraversiamo, a Mitrovica, il ponte che separa.
Alessandro cerca di organizzare il percorso; chiama Padre Andrej per la visita al monastero di Dečani, ci dicono che alle ore 18 ci sarà una funzione, e sarebbe bello assistervi. Poi, una telefonata a madama Dobrila, per la visita al patriarcato di Peć. Osserviamo le moschee, una delle quali in costruzione, passando per Novi Pasar; a destra, c’è la strada per il Montenegro.
Più avanti, incontriamo due cortei nuziali, in perfetto stile jugoslavo: corteo di macchine, in fondo un camioncino scoperto, con una banda che suona, come nei film di Kusturica e, davanti, la macchina che apre il corteo con la bandiera nazionale. E’ un po’ strano vedere, per la prima volta in un frangente simile, la bandiera kosovara; una sensazione ancora più irreale quando, il corteo successivo, ci viene incontro con la bandiera dell’Albania.
Quando arriviamo a Dečani sono le 16. Passiamo dai soldati italiani, cui affidiamo i passaporti, e veniamo accolti dai monaci con la consueta gentilezza. Accendo, seguendo il tradizionale rituale, dei ceri negli spazi appositi: in basso per i morti, in alto per i vivi. Rivisitiamo, per la seconda volta questo mese, la storia del monastero, con Beba che fa le prove da traduttrice (e se la cava benissimo). Per una volta, tra le icone che compro per portarle agli amici, ne prendo una per me, che rappresenta l’icona, presente in questo monastero e credo sia unica, di Cristo con la spada. La spada che, ci spiega uno dei monaci, rappresenta “nessun compromesso con la Verità e la Giustizia”.
Anche stavolta saliamo nella lunga terrazza che fa da refettorio e beviamo, invece della rakija, il vino nero, mentre Jordanka sfoglia con uno dei monaci il registro, alla ricerca del suo nome: in questo monastero ha ricevuto la cresima.
Un monaco fa i tre giri intorno al monastero, battendo su un asse di legno; è il segnale che ci si deve preparare per la funzione. I monaci entrano per primi, noi subito dopo. Qui, come direbbe il filosofo, si dovrebbe tacere, perché è difficile riportare la suggestione di queste atmosfere, del rituale dove la lettura dei testi sacri si accompagna alle melodie e alle sfumature delle sonorità delle voci dei monaci (non c’è coinvolgimento della gente, che assiste), tra il profumo dell’incenso e i gesti in sincronia con le parole del testo. Come sempre, ho finito per dire anche troppo, ma l’esperienza andrebbe vissuta. In particolare, si dovrebbe vivere il giovedì, quando, ci spiegano, c’è una funzione cantata dove per l’occasione viene aperta la tomba di Stefano Re. Anche stavolta ci regalano qualcosa, ed è proprio il libro del Santo Re Stefano di Dečani, ed anche un cd (che ci invitano a copiare) dove c’è l’intera funzione cantata.
Ripartiamo con ancora la suggestione di quella polifonia profumata d’incenso.
Passiamo davanti al Villaggio Italia, la base militare a Belo Polje, scartando l’idea di fermarci perché il tenente colonnello della volta scorsa non ha ancora risposto alla mail di Alessandro, che richiedeva un incontro. Davanti alla base c’erano due ettari di terra, di proprietà del nostro accompagnatore. Su questa terra, che nessun diritto internazionale lo aiuterà a recuperare, ora ci sono i negozi, costruiti per commerciare con i militari della base. La sua terra.
A casa del nostro amico poliziotto, dove eravamo stati ospitati la volta scorsa, ritrovo il marsupio che avevo dimenticato, cui tenevo in particolare perché m’aveva accompagnato in un’altra missione, in Iraq. Arriva la telefonata del tenente colonnello: per questa volta non ce la faremo ad incontrarlo. Incontriamo invece una grappa a 54 gradi davvero notevole, e ceniamo con i soliti, giganteschi e ben farciti, panini coi ćevapčići. Prima di andare a dormire, c’è ancora il tempo per discutere sul ‘falso storico’ della birra che ora chiamano Peja… e sulla scritta dell’etichetta: ‘dal 1971’. Ma nel 1971 birra da queste parti aveva un altro nome ed era di fabbricazione serba. Damnatio memoriae applicata anche alle bevande. Io, comunque, continuo a preferire la mitica Jelen Pivo (birra del cervo).
16 luglio
“Leptir”, farfalla in serbo; ce n’è una sopra un fiore, la mattina, quando andiamo a salutare chi ci ha ospitato, e a pagare il disturbo. Il nome mi torna spontaneo, ricordando gli origami che componevo nel 2000, coi bambini appena arrivati dal Kosovo, durante un campo di lavoro… Beba mi gratifica con un ‘bravo!’. La moglie del nostro ospite ci ha preparato una ‘pita’ (altro buonissimo cibo di queste parti) per il viaggio; per i soldi, Beba ci traduce la richiesta: “Voi aiutate gente, voi buona gente, quello che volete dare va bene”. Lasciamo 60 euro facendo due conti, mentalmente, sulla volta scorsa quando eravamo solo in due. E’ bello e incredibile, quanta comunicazione autentica possa trasmettersi, quando il vocabolario è scarso; come se restassero le parole essenziali, e quindi anche i concetti essenziali, e si rischiasse minor fraintendimento: ancora una lezione dall’oriente; dopo gli origami, gli haiku giapponesi.
Quando siamo nei pressi del cimitero sono circa le 10,30, e Jordanka balza letteralmente dal pulmino correndo attraverso la strada. Le andiamo dietro in silenzio, e lasciamo che sfoghi il suo dolore sulla tomba che rivede dopo tanto tempo. Il cimitero è accanto alla strada; sulle tombe, come d’usanza, tazzine di caffè, bottiglie di grappa e altro. Come nel kolo, gli spiriti sono partecipi delle usanze dei vivi, e si può bere idealmente con loro, sulla tomba (del retaggio mai disconosciuto dai serbi con le origini pagane ho detto nella prima parte di questo doppio viaggio). Alcune tombe hanno la croce cristiana, altre hanno la stella comunista. Altre ancora le hanno entrambe. Ci sono le foto di marito e moglie; a volte, sotto una delle due foto, non c’è la data del decesso, semplicemente perché non è ancora avvenuto… ma intanto la tomba è pronta per quando sarà il momento.
Un albero antichissimo sovrasta l’entrata al cimitero, vicino ad una capanna altrettanto antica. Di fronte, una fontanella dedicata con tanto di foto (come si usa) a due fratelli uccisi dai terroristi. E questo è tutto, come mi ero ripromesso.
Nel villaggio di Goraždevac, il primo visitato la volta scorsa, c’è stavolta anche una bandiera del nuovo Kosovo. E una piazzetta chiamata Piazza Italia che non avevamo visto. Ci fermiamo ad una specie di bar, ricordando anche la promessa fatta al figlio del nostro autista, di comprargli una bottiglia di ‘Skanderbeg’. Per chi non lo ricordi, Skanderbeg (in questo caso si tratta di un brandy albanese) è anche il nome di un eroe albanese del 1400, ‘difensore della cristianità’. La damnatio memoriae non fa parte, sembra, del codice genetico dei serbi. Al contrario, sembra applicata loro dal resto del mondo: il loro nome sta per essere cancellato, perfino dai monasteri dove si è fondata la parte forse più intensa della loro identità. Mentre in Montenegro, mi racconterà poi Vladimir, la lingua serba continua ad essere parlata e insegnata, solo che adesso si chiama ‘lingua materna’, anche alle superiori. E, si dice ma non ho conferma, che qualcuno voglia estirpare il bozur, fiore tipico del Kosovo, legato alla memoria storica dei serbi e della battaglia del 1389. Nel frattempo, Jordanka, più serena, dopo aver contattato una signora del luogo che si occuperà per lei di curare le tombe, ci compra delle bottiglie di brandy… made in Croazia.
Lasciamo il posto, dalla strada possiamo vedere parchi con piscina, case con lapidi e bandiera serba, case in costruzione con bandiera albanese, e lapidi sul ciglio della strada con la stessa bandiera albanese, però a contrassegnare i morti dell’Uck, rappresentati con mimetica e mitra in mano.
Una grazia di Dio…
Con le mani sporche di quello che sembra sangue, ma è solo mirtillo, l’albero piantato da San Sava in persona qui al patriarcato di Peć, attendiamo il colloquio con madama Dobrila. Non visiteremo il monastero, stavolta, ma parleremo, a lungo, di storia e di quello che possiamo ancora fare; perché a lei interessa sapere cosa possiamo o vogliamo fare per i serbi che restano in Kosovo, non solo per quelli che sono dovuti fuggire. Mentre attendiamo, Beba si fa fotografare con un soldato italiano (credo sia un dispettuccio alla sorella più grande), mentre altri militari vanno a salutare con enfasi e grande confidenza madama Dobrila, elegantissima col suo cappellino per ripararsi dal sole. Io cerco di catturare immagini di pura bellezza tra fiori, corsi d’acqua e verde, ma so che rivedendole non renderò l’idea neanche per un infinitesimo.
Il colloquio si svolge all’aperto, e andrebbe riportato per intero anche stavolta. Ma alcune cose mi rimangono impresse: il grande impegno di madama Dobrila perché i serbi siano aiutati a rimanere in Kosovo, perché non svanisca l’identità serba (gli USA, dice, hanno promesso milioni di dollari per il ritorno a Osan, ma poi non si è visto nulla). Critica i tentativi di armonizzare le due etnie annullando le differenze: due persone con le quali ha appena finito di parlare proponevano lavori congiunti tra donne albanesi e serbe… ma per Dobrila è un esperimento già tentato da Tito, e non crede si possa convivere pacificamente annullando o ignorando le differenze, ma comprendendole e riconoscendole reciprocamente. Ecco perché non ha particolare entusiasmo per chi, da cattolico, voglia abbracciare la religione ortodossa: ognuno ha la sua religione, frutto di una tradizione e di una cultura che non può essere semplicemente dimenticata. Ecco perché è indignata da quei serbi che non ricordano nulla della loro storia, studenti che visitano il patriarcato ignorando la sua identità ma soprattutto, cosa che ritiene imperdonabile, professori, anche di teologia, che ne sanno ancora meno. Penso a come sarebbe bello poter portare questa signora a parlare da noi all’università, ancora più bello portare qui studentesse e studenti… magari dopo aver assistito alla funzione cantata del giovedì a Dečani. Non so se madama Dobrila apprezzerebbe la mia ricerca laica di comprendere una religiosità svincolata dalla fede e dalle scritture, ma sono sicuro che sarebbe affascinante discuterne. Tra le tante cose da riportare, ancora un paio: la cartina, che lei aveva chiesto agli americani per individuare le enclavi serbe, che manca del confine tra Kosovo e Albania. Ma soprattutto, mi colpisce quando, ancora una volta, parla dei soldati italiani che difendono il patriarcato. Li definisce, più volte, “una grazia di Dio”. Una grazia di Dio che siano loro a proteggere il patriarcato e, col patriarcato, tutti i serbi. E dice che sono “più che i nostri soldati serbi”. Ancora, testuale: “non si può immaginare la protezione del patriarcato da parte di un’altra Kfor”. Ci racconta, a suggello, di quando organizzarono una visita dell’arcivescovo, rischiando di celebrare senza la presenza della popolazione serba, che non era stata avvertita. Ci dice che furono i soldati italiani ad avvertire i serbi delle enclavi, ed anche che aiutarono fattivamente a cucinare e distribuire il cibo. E che alla fine prepararono dei sacchetti col cibo rimasto, distribuendoli alla gente. “Io non posso dimenticare questo, è straordinario”.
Stiamo per andare via, ma faccio tardare un poco il gruppo perché mi è arrivato un messaggio con una richiesta. Quando Beba mi viene a cercare, dentro la chiesa, torno e mi scuso, dicendo a madama Dobrila che dovevo accendere un cero su richiesta del mio amico Vladimir, che sapeva che sarei andato al patriarcato. E lei fa un bellissimo sorriso.
La giornata è ancora lunga, andiamo verso i luoghi dove abitava Jordanka con la sua famiglia; Beba fotografa tutto, ci si avvicina e ci si ferma alla scuola dove andava una delle sorelle. Ne approfittiamo per bere qualcosa, aspettando l’incontro con il capo villaggio, nel frattempo due camionette della Kfor spagnola si fermano vicino a noi, ed i soldati vengono anche loro a rinfrescarsi al bar.
Mentre parliamo con il capo villaggio, notiamo i container, tra i quali uno che funge da punto di ristoro, dove orgogliosamente campeggia una targa a spiegare che è stato allestito grazie al contributo dell'Unione Europea. Ce ne vorrebbe una anche per spiegare grazie al contributo di chi, quella regione è stata messa a ferro e fuoco, ma ci si potrebbe accorgere che i due contributi, forse, coincidono…
Nessuno invece ha contribuito a costruire bagni decenti, c’è una sorta di latrina poco distante.
Beba dà il meglio di sé come traduttrice, e ascoltiamo le dichiarazioni dignitose di chi non ha nulla da chiedere, perché pensa che ce la devono fare da soli. Ma qualcosa insieme, sicuramente, la faremo. Arriva il pranzo: grappa per aperitivo, e carne di svariati tipi e cotture.
Arriviamo intorno alle 18, in quella parte del Kosovo dove, su una collinetta dalla vista splendida intorno alla campagna e ai boschi, sui dodici ettari che le appartenevano, Jordanka e la sua famiglia vivevano da sei mesi in quella casa, vicino al roseto. Fino a quando sono dovuti scappare all’improvviso, per non essere uccisi.
Arriviamo sotto il sole, arrampicandoci sulla collina, camminando tra la campagna, entrando in un sottobosco fresco e suggestivo, di quelli che alimentano le fiabe e le storie di fate. Solo che, ancora una volta, la visione della casa, appena usciti dal sottobosco, riporta ad una realtà amara e tragica. Si entra in quel che resta dei due piani, tutto è distrutto, ci aggiriamo tra le rovine e speriamo che il destino non sia ulteriormente beffardo quando, incurante del rischio, Jordanka sale al piano superiore su quel che rimane delle scale fatiscenti. Quando ce ne andiamo, però, non portiamo con noi solo i resti della culla di legno di Beba, delle scarpine ritrovate tra le macerie, e del biberon. Jordanka porta con sé anche un ramo di quel roseto che pianterà nella sua casa di adesso. Un pezzo di memoria, ma vivo.
17 luglio
Sotto un sole feroce, stiamo per entrare alla Zastava, fabbrica storica della Jugoslavia, a Kragujevac (la città del massacro nazista del 1941). Con Alessandro andiamo ad intervistare Rajka, sindacalista, un altro personaggio storico, anch’essa con grande padronanza della lingua italiana. Incurante dei paradossi, come già spiegato, non mi sento sacrilego a paragonarla a madama Dobrila.
Due personalità grandissime, due persone speciali. E parlando con lei, e con l’operaio che, malato terminale, ci racconta tramite lei la sua storia, penso ad un altro sindacalista, mio amico e fratello, scomparso anni fa. Alle lotte in fabbrica, a quanto, lui, avrebbe apprezzato questo lavoro. E’ proprio grazie a lui che ho contattato, nel 1999, ‘Il Ponte per’, per la prima missione nella Jugoslavia appena bombardata. A Francesco Babusci, dedico il piccolo video che ho sottratto all’intervista (so che nessuno mi farà pagare il copyright). Rajka racconta di quando bombardarono la fabbrica dove si trovavano a fare gli scudi umani. La loro “seconda casa”. La disperazione, la ricostruzione a più riprese, i bombardamenti nel giorno della Pasqua ortodossa, le uova da colorare e distribuire alle famiglie, distrutte nei reparti… Il 70 per cento degli operai, volontari, morti di cancro per ripulire ogni volta dalle macerie radioattive…
Ce ne andiamo, su un pullman senza aria condizionata e con le poltrone a pezzi, discutendo con Alessandro di come sarà possibile organizzare tutto il materiale che stiamo raccogliendo. Alla stazione del pullman, una piccola rom chiede dei soldi, Alessandro le offre il gelato.
Una lunghissima camminata, appena arrivati a Kraljevo, ci porta, sotto il sole, a casa del fratello di Novka, dove mangiamo (e beviamo). Poi, mentre Alessandro, Samantha e Marzia sono in giro per la consegna dei sostegni, io mi rilasso a casa di Novka, parlando di amicizia, e scoprendo anche, da Marko, che ha finito di vedere, in due giorni, i cd con tutte le puntate della prima serie di ‘Carabinieri’ che gli avevo portato!
Una cena, ancora una volta sostanziosa, all’aperto. Poi andiamo a prendere il pullman per Belgrado.
A Belgrado arriviamo, sonnecchiando, alle 4,30 circa di mattina. Ci salutiamo coi tre baci, come si usa qui, poi, mentre il loro taxi si allontana verso l’aeroporto, io me ne vado in albergo. Come sempre, approfitto del viaggio per vedere i miei amici.
Vladimir, passeggiando per la fortezza di Belgrado (Kalemegdan) e, come una famosa canzone, ‘bevendo della grappa al Rakia bar’, mi racconterà di altre cose che stanno succedendo. Della battaglia del Kosovo che un libro americano ha praticamente riscritto, attribuendone la grandezza epica ad eroi albanesi cristiani, ma anche delle difficoltà all’interno della Chiesa ortodossa, con la prossima successione al Patriarca malato. Alcuni vescovi stanno cercando di modificare la liturgia, per renderla più simile a quella cattolica. E qualche monaco, girandosi verso la gente durante la messa (contrariamente al rito), s’è già preso qualche schiaffo, non solo in senso morale.
E’ il 18 luglio, domani tornerò in Italia; mentre aspettiamo Dzemilja con la sua amica Zorica (che, insieme al fratellino, vidi arrivare all’istituto minorile Drinka Pavlovic di Belgrado, piccolissimi e in pessime condizioni), assistiamo, in una delle piazze principali di Belgrado (l’equivalente, per gli appuntamenti, di quella che fu, a Roma, la lampada Osram), al 353° giorno di protesta per il Kosovo. Non mi pare di vedere giovani. In tutto, contando anche me stesso e Vladimir, che assistiamo, sono circa trenta persone.
L’ultima immagine, è quella con la quale ho aperto questo resoconto; l'immagine di un fiore che nasce in Kosovo, che chiamano bozur. Da una breve ricerca ho visto che ce ne sono varietà di colore anche rosa, ma quello che è considerato simbolo di questa terra è rosso, dal colore sanguigno. Per il folklore popolare, è a causa del sangue che innumerevoli volte ha macchiato la terra. Più simbolicamente, altri lo fanno risalire a quando, dopo la battaglia del Vidovdan, lo zar Lazar venne fatto prigioniero e decapitato. Da allora, sul ‘campo dei merli’, cresce questo fiore purpureo.
Una delle più lunghe dominazioni straniere nei confronti di un popolo, non è riuscita a sradicare le tradizioni e l’identità dei serbi. Chissà se, cancellandone il nome dappertutto, dai monasteri serbo – ortodossi, dalle lingue che si insegnano, o, come dice qualcuno, sradicando completamente questo fiore dal Kosovo, ci riusciranno. Resterebbe da capire qual è il senso di questa damnatio memoriae. Intanto, un po’ del nostro cuore, anche stavolta resta lì.
mercoledì 22 luglio 2009
Cieli slavi del sud. Non senza grazia. (Kosovo, parte prima)
Il termine paradosso deriva dal greco ed è composto da para (contro) e doxa (opinione). Indica una proposizione formulata in evidente contraddizione con l'esperienza comune o con i propri principi elementari della logica ma che sottoposta a rigorosa critica si dimostra valida. (Odifreddi)Il ponte che separa la ‘parte serba’ da quella albanese di Mitrovica (Kosovo e Metohija), rappresenta un paradosso. Il paradosso, parola che userò con una certa libertà interpretativa, più vicina a quella del senso comune, per intenderci, è il paradigma di questo viaggio, intrapreso con Alessandro, alias Aquila Grigia, responsabile del ‘Ponte per’ riguardo all’area della ex - Jugoslavia. Un’avventura articolata in tre fasi solo apparentemente distinte.
Nel linguaggio comune ‘paradosso’ può significare tante, troppe cose: assurdità, contraddizione, enigma, mistero, ambiguità. (Odifreddi)
Nel 2005, la polizia kosovara è subentrata alle forze di interposizione internazionali, KFOR, nel garantire la sicurezza sul principale ponte di Mitrovica, che collega, attraversando il fiume Ibar, la parte settentrionale alla parte meridionale di questa città divisa.
(http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4422/1/45/).
- Entrare nel Kosovo ‘indipendente’ a visitare le enclavi serbe, raccogliere testimonianze e monitorare per quanto possibile gli effetti della guerra sui civili.
- Accompagnare a Roma i bambini e i ragazzi profughi, che ormai vivono a Kraljevo, e che il ‘Ponte per’ sostiene con gli affidi a distanza, affinché, come da una decina di anni a questa parte, possano fare una vacanza a casa delle famiglie che li sostengono.
- Passare una notte a Venezia e poi fermarsi in Abruzzo, in una tendopoli allestita da militari e protezione civile, per partecipare ad una iniziativa in uno dei paesi colpiti dal terremoto.
Scrivo sotto le note dei CSI, è un brano che cita il cielo slavo del sud. E durante il viaggio ho voluto fotografarlo a più riprese, quel ‘cielo slavo del sud pieno di grazia’. E’ stato allora che mi ha colpito la consapevolezza che questa avventura era, appunto, intrisa di paradossi.
Chi è che sa di che siamo capaci tutti
Il primo paradosso è la consapevolezza amara che, se avessi voluto fare un lavoro preciso (mio era l’onore e l’onere di monitorare con telecamera tutto il viaggio), avrei dovuto volgere al plurale quel cielo. Perché il cielo slavo del sud sono ormai troppi cieli. Paradosso, vale a dire ‘ciò che si oppone alla opinione comune’. Perché il cielo è uno, e solo un’opinione addomesticata e ammaestrata può separarlo con la concettualizzazione; separare tra gli uomini ciò che per la Natura è un’unica cosa.
Ho fotografato il cielo slavo della Serbia, il cielo slavo della Croazia, il cielo slavo della Slovenia… Appuntandomi l’orario per poterli distinguere sulla carta, visto che con gli occhi al cielo non era possibile.
C’è poi il problema di come raccontare. Per sensazioni, per immagini, per fatti reali o collegamenti storici. Il desiderio di trasmettere le proprie sensazioni e quello di informare senza essere tacciati di visione soggettiva. Perché il sentimento non esclude la logica, ma è solo grazie a quest’ultima che si può discutere e cercare verità condivise. E allora, cosa racconto alla collega che incontro al supermercato, che mi chiede di spiegarle cosa è successo in Serbia, con la guerra, perché ha letto un libro dove si parla dei crimini di una parte sola? Racconto la storia della Jugoslavia, o le facce dei bambini cacciati dalle loro case, o dei cimiteri serbi bruciati nel Kosovo ‘indipendente’ (quelli albanesi nella zona serba sono intatti)? Racconto di come i servizi segreti croati (gli ‘acerrimi nemici’ dei serbi), i medici francesi (il paese che ha convinto l’opinione pubblica, contraria alla guerra ‘umanitaria’, mostrando ogni giorno le fosse comuni in televisione), i giornali americani (promotori di questa guerra), hanno tutti ammesso, a lavoro compiuto, che le centinaia di fosse comuni non c’erano? Oppure, sempre per restare ai fatti concreti, parlo del tribunale dell’Aja, quello creato per punire i serbi (e che ha assolto la Nato dopo il massacro dei profughi albanesi sul treno, definendolo ‘effetto collaterale’)? Quel tribunale che ha ammesso l’esistenza di ‘solo’ due fosse comuni, piene di tutto: albanesi, serbi, bosniaci. Militari e civili. Tutti insieme, come un tempo lo erano nella Jugoslavia. Negli USA, i giornali hanno smentito da tempo (magari per rifarsi una verginità prima di nuove bugie), in Italia pare lo abbia fatto un solo giornale, in 34a pagina, un trafiletto.
Questa è una parte della storia. Ma la storia andrebbe conosciuta; qualcuno, allora, comprenderebbe l’attaccamento disperato dei serbi per il Kosovo.
Vanificato il limite oramai
Vanificato il limite
Allora racconterò questo viaggio per immagini, magari con qualche concessione alla cronologia. E la prima immagine che racconterò è quella del gruppo incontrato sulla strada verso la ‘Piana dei merli’.
Un gruppo con le bandiere serbe, va a celebrare Vidovdan, San Vito (Видовдан), che ricorre il 28 giugno.
Battaglia della Piana dei merli (Adam Stefanović)
Riporto da http://balkan-crew.blogspot.com/2009/06/vidovdan-2009.html (dove c’è anche il video della famosissima canzone scritta per i 600 anni dalla battaglia), e da ‘Wikipedia’:
La battaglia della Piana dei merli, in serbo Косовски бој o Бој на Косову, venne combattuta il 28 giugno 1389 (il giorno di San Vito) dall'esercito serbo contro l'esercito ottomano, nella "Piana dei merli", (odierna Kosovo Polje a nord di Priština, capitale del Kosovo).
L'esercito cristiano, composto da una coalizione tra l'Impero serbo e il Regno di Bosnia, era comandato dal Knez (principe e condottiero) serbo Lazar Hrebeljanović. Le truppe della coalizione serbo-bosniaca contavano circa 25.000 uomini ben armati, suddivisi in tre armate. Erano comandati dal genero di Lazar, Vuk Branković, sull'ala sinistra, dal principe Lazar al centro e dal duca bosniaco Vlatko Vuković sull'ala destra.
L'esercito ottomano era guidato dal sultano Murad I e contava circa 50.000 uomini. La battaglia iniziò con l'avanzata della cavalleria serba, che distrusse completamente l'ala sinistra ottomana. Le truppe comandate da Branković riuscirono inoltre ad annientare completamente anche l'ala destra degli avversari, ma gli Ottomani furono infine raggiunti da cospicui rinforzi e poterono così sconfiggere i Serbi, stanchi e inferiori numericamente.
Pressoché tutta la nobiltà serba si fece uccidere sul posto insieme al Knez Lazar. Vuk Branković si ritirò e continuò la resistenza contro gli Ottomani, finché fu catturato da questi ultimi, morendo infine in prigionia.
Il nobile serbo Miloš Obilić riuscì poco dopo ad uccidere il sultano Murad con un inganno. Dopo la morte di Murad, il figlio Bayezid I continuò l'espansione ottomana verso i Balcani e l'Europa sud-orientale. Tuttavia il Regno di Serbia riuscì a sopravvivere per un altro secolo prima di cadere definitivamente sotto il dominio turco.
Entrambi gli eserciti ebbero delle gravi perdite, ma per la Serbia l'esito fu catastrofico: vennero infatti uccisi più di 150 cavalieri serbi e il Paese vide sparire gran parte della sua élite politica e militare. Il nuovo sultano Bayezid I prese come moglie la figlia di Lazar, la principessa Olivera Despina. I Serbi vennero costretti a pagare tributi ai Turchi ed a compiere servizi militari presso l'esercito ottomano, come nel caso della battaglia di Ankara. In seguito, dopo altre due battaglie minori e l'assedio di Semendria, gli Ottomani annetterono il resto del Regno di Serbia, completandone la conquista nel 1459. La fine dell'indipendenza serba fu l'evento che diede la possibilità all'esercito ottomano di arrivare fino alle porte di Vienna.
La battaglia della Piana dei merli è considerata dai serbi uno degli eventi più importanti della loro storia, fonte di gran parte del loro sentimento nazionale. La battaglia e la sorte dei cavalieri cristiani divennero il soggetto di molta poesia epica medievale serba, parte della quale composta presso la corte della vedova di Lazar, Milica. Il principe Lazar venne canonizzato dalla Chiesa ortodossa serba.
Vidovdan
U nebo gledam prolaze vekovi Sećanja davnih jedini lekovi
Kud god da krenem Tebi se vraćam ponovo Ko da mi otme iz moje duše Kosovo K'o večni plamen u našim srcima Kosovskog boja Ostaje istina. Kud god da krenem Tebi se vraćam ponovo Ko da mi otme iz moje duše Kosovo
Oprosti Bože sve naše grehove Junaštvom daruj kćeri i sinove.
Kud god da krenem Tebi se vraćam ponovo Ko da mi otme iz moje duše Kosovo
Guardo nel cielo, i secoli che passano
Le antiche memorie sono l’unica cura
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.
Come l’eterna fiamma nei nostri cuori
La battaglia del Kosovo resta l’unica verità
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.
Perdonaci Signore tutti i nostri peccati
Dai coraggio ai nostri figli e alle figlie
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.
Kosovka Devojka (Ragazza kosovara), del pittore Uroš Predić (1919) In origine la “Kosovka Devojka” era la figura principale di un poema epico: una giovane e bella ragazza che dopo la battaglia di Kosovo Polje si prende cura dei guerrieri serbi feriti mentre sta cercando il suo fidanzato, il suo padrino e il suo futuro testimone di nozze tra i caduti. Da un ferito viene poi a sapere che sono caduti tutti e tre in battaglia. (http://balkan-crew.blogspot.com/2008_09_01_archive.html)
Conoscendo la storia, è una sensazione strana incontrare questo piccolo gruppo di persone. Lo guardiamo mentre si allontana con le sue bandiere, scortato da macchine della polizia.
Nella nostra macchina, invece, il poliziotto serbo che lavora nel Kosovo a maggioranza albanese, che ci fa da guida, continua a raccontare. Ci ha caricato a Mitrovica ‘serba’, due passi dal ponte che segna il confine con la Mitrovica ‘albanese’. Lo aspettiamo conversando con l’interprete appena conosciuta; Jelena è un’insegnante di scuola elementare e parla benissimo l’italiano. Al bar, aspettiamo conversando; Alessandro vuole sapere se è vero che i bambini albanesi, anche dopo la guerra fratricida, continuano a venire a curarsi in Serbia. Un altro paradosso, ma sembra tale solo per noi italiani. Jelena e il nostro accompagnatore confermano, come se fosse la cosa più naturale del mondo, anche quando Ale persiste a chiedere conferma, “ma anche dopo che avevano fatto una guerra per staccarsi”… E io ricordo, all’indomani della fine dei bombardamenti Nato: anche a me pareva strano che a Belgrado vivesse indisturbata una consistente comunità albanese… forse anche in me c’era un po’ della suggestione sulla ferocia del popolo serbo, non li conoscevo ancora bene.
A Mitrovica siamo arrivati dopo un viaggio di un paio d’ore in macchina, con la nostra guida, profugo anche lui, che avrà la triste opportunità di rivedere alcune delle case bruciate e distrutte, tra le quali la sua. Qui molte macchine non hanno la targa, in parte perché sono rubate, in parte perché, chi è costretto per lavoro (come nel caso del nostro accompagnatore) a fare avanti e indietro tra le due parti, potrebbe avere problemi. Infatti, quando siamo pronti per partire, lui sta rimettendo la targa. Lasciamo Mitrovica - parte serba e i suoi cartelli con ‘Kosovo è Serbia’, sempre più slogan e sempre meno speranza.
Elicotteri USA sorvolano il cielo slavo del Kosovo, incontriamo spesso le jeep della KFOR francese, ma anche qualcuna dei nostri carabinieri. E’ mezzogiorno passato, la giornata è piovosa, ed io sto consumando la memoria della videocamera, visto che Alessandro m’ha incautamente detto di riprendere anche le mosche. E io più o meno faccio proprio questo. Secondo lui, le facce sono uguali da entrambe le parti, a me non sembra.
Soffice crepitio sulla terra
Mentre veniamo messi al corrente delle conseguenze dei bombardamenti (cancri, malformazioni e altro), scorrono le case. Si riconoscono quelle serbe, sono quelle distrutte.
Arriviamo al Monastero di Visoki Dečani, protetto dai militari italiani. Ci presentiamo e, con molta cortesia, fatti gli accertamenti e ritirati i passaporti per il controllo, ci lasciano entrare. Ci accoglie padre Pietro, che parla un po’di italiano e, con grande gentilezza, ci consente di fare fotografie all’interno (in genere non si può).
Tanta bellezza, ancora una volta, riporta alla mente tutti i monasteri fatti a pezzi durante i bombardamenti e le aggressione dei terroristi e anche dopo, nel 2004, assaltati e bruciati. E Vladimir che rabbioso mi mandava le foto, scattate di nascosto, delle macerie del cuore antico della Serbia. Alla fine della visita della chiesa, padre Pietro ci regala il libro, in italiano, sulla storia del monastero. Ne approfittiamo per comprare delle icone (maternità) da riportare in Italia. Prima di accomiatarci passiamo in refettorio, un lungo terrazzo. Ci viene offerta la rakja, il caffè, e acqua di sorgente. Cui segue la jabuka, prodotta dai monaci, e biscotti.
Padre Pietro ci mostra un libro dove, nel 1941, militari italiani scrivevano a ricordo dell’accoglienza ricevuta, e della speranza che, finalmente, la giustizia avrebbe trionfato. Era il 1941; a poca distanza, Kragujevac, i nazisti massacravano 20/30 mila serbi, con intere classi di scuola elementare. E’ ancora il paradosso, che Alessandro coglie subito (vedi http://zdravodaste.blogspot.com/2008/10/dovere-di-insegnante-dovere-di-uomo.html).
Nel 1941, durante la guerra, gli italiani proteggevano questo monastero dagli albanesi; l’augurio del Maggiore, scritto sul libro “in una serena ora di pace, con la sicurezza che presto la giustizia trionferà”, ha un sapore beffardo.
Lasciamo il monastero salutando i militari, e proseguiamo. Ci dirigiamo verso una delle enclave serbe circondate dal territorio ormai indipendente. Il senso di questa indipendenza lo danno i numerosi edifici, pompe di benzina, alberghi ma anche negozi, dove la neonata bandiera del nuovo Kosovo è sempre affiancata da quella dell’Albania. E anche da quella americana, a volte accompagnata da quella inglese, della Nato e dell’Unione Europea.
Arriviamo al villaggio di Goraždevac, dove intervistiamo il capo villaggio, in pratica il sindaco; ci racconta degli sforzi per riportare un po’ di tranquillità e per continuare a cavarsela in questa situazione così complicata. Parla con fierezza, rivendicando anche una maggiore tranquillità rispetto al passato. Ma i problemi sono parecchi. La presenza degli italiani è tranquillizzante e ha contribuito alla loro protezione, ma forse adesso potrebbero farne a meno. Tra le domande di Alessandro e la traduzione di Jelena, c’è il ricordo di quando, nel 2004, due bambini vennero ammazzati lì vicino. Stavano facendo il bagno nel fiume, vennero uccisi a colpi di mitra. Ricordo che mi trovavo a Belgrado, ricordo il lutto nazionale e la rabbia impotente di tutti.
Il contenuto di questa e delle successive interviste sarà l’oggetto del video che prepareremo, a me resta in mente il volto di queste persone, la loro voglia di non mollare. E’ qui che comincia a formarsi una nuova idea, la voglia di estendere i progetti del ‘Ponte per’, i sostegni a distanza, anche a questi villaggi. Con tutte le difficoltà che comporterebbe, certo.
Seconda enclave, Brestovic; il capo villaggio ci accoglie in una specie di fattoria, con bambini che fanno prima capolino e poi si avvicinano, divertiti e incuriositi dalla telecamera che li riprende. Compare anche una vecchietta, con tanto di sigaretta in mano, che si avvicina a prendersi cura dei più piccoli.
Facciamo una passeggiata per questa campagna, incrociamo altri pochi anziani, la storia è sempre la stessa: la grande resistenza di chi non vuole arrendersi, che vorrebbe non essere lasciato solo da quelli che invece non ce l’hanno fatta o sono stati costretti a fuggire in Serbia. Quelli che stanno vendendo le case agli albanesi, finendo per legittimare anche sulla carta quella che è stata la vera pulizia etnica operata nel Kosovo dalla Nato, a danno della minoranza serba. E’ un tema, quello del malumore verso chi se ne è andato, e non torna, e vende le sue proprietà, che si ripeterà per tutto il viaggio. Ancora paradosso, quello di chi è costretto a provare rancore verso i propri fratelli, perché ormai prendersela coi criminali è inutile.
Ci salutiamo brindando con la solita rakja.
A Peć, ci fermiamo a cenare in un ristorante che espone all’interno la bandiera albanese. Pollo e Vranac, l’atmosfera è distesa, davvero sembra che tutto sia normale, anzi normalizzato.
La terza rakija (chi pensa sia un’esagerazione dovrebbe conoscere l’importanza rituale di questa bevanda per i serbi) la beviamo a casa del nostro accompagnatore. Ci si ferma ancora un po’ per ricordare… di quando i militari italiani presidiavano il cimitero, dove si erano asserragliati i serbi per evitare che venisse bruciato. O quando, sempre i militari italiani, nel 2004, evitarono all’ultimo istante che i serbi chiusi dentro un centro collettivo venissero bruciati vivi.
Nel 2004 non si poteva ancora uscire senza scorta. Era solo cinque anni fa.
Ci accompagnano in una casa per dormire, lascio la telecamera. Ancora una sorpresa, la moglie ci ha preparato dei muffin tipici del luogo, e c’è anche il classico yogurt. Una bella sorpresa. Meno bella la sorpresa della serratura, che non funziona. Più per goliardia che per reale protezione, blocchiamo la porta con un paio di sedie prima di andare a dormire. Ma senza eccessiva preoccupazione, del resto siamo nella casa dell’unico poliziotto serbo che lavora in questa parte del Kosovo…
Gusta mi magla padnala, more, na toj mi ramno Kosovo.
La nebbia densa scende sulla piana del Kosovo.
Ništa se živo ne vidi, more, do jedno drvo visoko.
Pod njeg mi sediv terzije, more, oni mi šijev jeleče.
Non puoi vedere in giro un’anima vivente. C’è solo un albero molto alto.
La mattina dopo, colazione con l’immancabile rakjia (sì, qui si beve anche a colazione prima del pasto) e poi, sotto la pioggia, e con il passaggio continuo di camionette della Kfor italiana che ha la base qui vicino, andiamo a visitare qualche altra casa. Vediamo case abbandonate e ancora distrutte, le riprendiamo con l’idea che qualcuno, quando pubblicheremo il lavoro, possa riconoscerle.
Belo Polje: vediamo il cimitero, del quale si osservano ancora i segni della distruzione operata durante gli scontri, poi andiamo parlare col capo del villaggio, dal quale (altra rakja) ci tratteniamo a lungo. Lui è tra quelli che, con più forza, vorrebbe il ritorno dei serbi in Kosovo. Anche Kosovo indipendente, ma con i serbi. Il paradosso che incontro qui merita una spiegazione, perché non è un paradosso vero e proprio. Il vicino albanese che è in visita dal capo del villaggio serbo, è la normalità che è sempre stata negli anni in cui il Kosovo era Serbia a tutti gli effetti. Se oggi appare un paradosso, è solo grazie a chi ha modificato l’opinione comune con slogan e menzogne. Accomunando i tagliagole (dicitura degli stessi statunitensi) che assassinavano i poliziotti serbi di stanza nel Kosovo, ai residenti albanesi che il più delle volte non avevano nulla a che fare che la pretesa di indipendenza di un Kosovo a cui, ci racconterà madama Dobrila, Tito aveva dato Università con professori albanesi e fabbriche. E dove gli albanesi godevano di diritti che oggi sono invidiati dalla minoranza serba. Ecco, l’albanese in visita beve con noi, parla e annuisce quando si parla dell’amicizia che c’era tra i kosovari serbi e albanesi. Con gli albanesi venuti dopo, è un’altra storia, e non potrebbe essere altrimenti.
Il capo villaggio serbo e il suo amico del villaggio albanese che è andato a trovarlo. A sinistra, Jelena.
Salutiamo e andiamo a parlare, dopo aver visitato la chiesa locale e osservato le devastazioni del cimitero vicino, con alcuni rappresentanti della comunità del villaggio, giovani e anziani. Una lunga chiacchierata, prima del commiato.
Andiamo allora alla base militare, il Villaggio Italia, che sovrasta Belo Polje; spengo la telecamera e chiediamo informazioni all’ingresso; anche in questo caso ci chiedono le credenziali, poi esce un tenente colonnello addetto alle relazioni, giornalista, col quale scambiamo due chiacchiere. Parliamo, tra l’altro, del ventilato trasferimento di un numero consistente di militari italiani dal Kosovo per andare in Afganistan (ma ci dicono che questo è un problema sul quale decidono i militari), e, informalmente, della situazione della regione. Ma per parlare meglio sarà necessario tornare, magari col pretesto di una spaghettata tra italiani, fuori dalla base.
Prossima tappa, il patriarcato di Pec.
Presidiato anche questo, ancora da italiani (cosa che si rivelerà gradita da tutti, come ci confermerà più tardi ‘la madame’). Tra di loro, delle ragazze molto giovani, e forse è un paradosso anche questo, vederle così armate, ma è un paradosso sul quale adesso non mi interessa soffermarmi.
Il patriarcato di Pec, come ci dice la guida in italiano che compriamo prima di andarcene, “è situato sulla riva sinistra del fiume Bistrica, al suo sbocco nella gola del massiccio Rugovo.
E’ uno dei più importanti monumenti del passato serbo; qui si trovava la sede storica degli arcivescovi e patriarchi serbi durante i secoli. Fin dal Duecento, il Patriarcato adunava i dotti teologi, eminenti letterati e artisti di talento, che hanno lasciato testimonianze della loro attività”.
Pomeriggio dolce assolato terso
Sotto un cielo slavo del Sud
Slavo cielo del Sud non senza grazia
E madama Dobrila è un’apparizione da romanzo, un personaggio che emana autorità e serenità al tempo stesso. Salvo poi quando agiterà nervosamente il bastone che porta con sé, perché in un paio di occasioni pronuncio nomi evidentemente sacrileghi all’interno della chiesa principale.
Forse il silenzio sarebbe meno oltraggioso che riportare parzialmente l’incanto e la grande lezione di storia e teologia che la signora ci impartisce… dopo averci chiesto se avevamo le basi delle sacre scritture, perché quanto ci racconterà, che è impresso nelle pareti, nei dipinti e in ogni centimetro di opere d’arte, è storia della Serbia e storia del cristianesimo, non solo di quello ortodosso. Le rispondiamo, a domanda, che abbiamo una mezz’ora di tempo, e ci fa capire che è davvero poco, comunque…
E’ una storia affascinante, una lectio magistralis che rimpiango di non poter registrare. L’entusiasmo mi gioca un paio di brutti scherzi; la prima volta (cercando di ricordare disperatamente quel piccolo trattato sulla religione serbo-ortodossa che avevo scritto per un lontano esame universitario) confondo l’immagine divina (dell’uomo) sulla quale insiste tanto la madame, con la natura divina (dell’uomo). In questo caso mi riprende con benevolenza. Meno benevola mi appare quando la prima volta, nel mezzo del racconto della storia delle vicissitudini serbe, nomino i turchi. E ancora di meno quando, a conferma di coloro che, dopo la seconda guerra operarono i grandi cambiamenti in Jugoslavia, nomino Tito. Lei mi chiede perché mai non capisco quello che dice. Ma la sua storia, la sua interpretazione della storia è davvero seria. Per lei è importante quell’immagine di Dio che l’uomo è; averlo dimenticato, ci dice a più riprese, ha reso gli uomini insensibili nei confronti del prossimo. Quanto alla distruzione progressiva del Paese, insiste sul fatto che ‘siamo stati noi a preparare tutto questo’. Non parla solo dell’Europa unita, ma di chi ha favorito le condizioni perché in Kosovo si arrivasse a questo. Perché adesso, i nuovi governanti del Kosovo, chiedono la tutela del patriarcato all’Unesco (un bel colpo per il turismo), come se non ci fossero mai state le distruzioni anche recenti dei monasteri serbo-ortodossi. Come se da noi un giorno, il Lazio divenuto a maggioranza musulmana divenisse indipendente e il governo richiedesse la tutela del Vaticano. Ma questo è un esempio davvero poco congruo, perché la nostra storia non ha nulla a che fare con quella serba, anche la storia della religione. Se il Vaticano è sempre stato in conflitto o comunque separato coi vari imperi succedutisi in Italia, la storia della chiesa serba-ortodossa nasce insieme alla storia della Serbia. San Sava (Свети Сава), figlio del condottiero e fondatore dello Stato medievale serbo Stefano Nemanja e fratello del primo re serbo Stefano Prvovenčani, fu il primo arcivescovo serbo (1219-1233), una delle figure religiose, e storiche, più importanti nella Serbia. Il patriarcato sottratto alla Serbia, è un oltraggio che noi non possiamo comprendere.
Mentre continua nel suo italiano addolcito dal francese (dote del marito), madama Dobrila racconta della concezione teologica della chiesa, ci parla proprio di Sava, del suo ‘non giudicare’.
Mentre i minuti scorrono, e sarà ben più della mezz’ora preventivata, ci racconta un pezzo di storia italiana, parlandoci di Anna Dandolo, e di Venezia. Anche in questo caso ricordo il professore di Storia moderna, all’università, che cercava i segni documentati di un collegamento tra Italia e Serbia, molto meno vaghi di quel che sembra.
Per madama Dobrila, l’impero turco è stato diverso da altri imperi, romano, bizantino, austroungarico; secondo lei (opinione condivisa da molti serbi), la battaglia del Kosovo del 1389 fu una tragedia che portò a 300 anni di stagnazione, anche se la fine dell’imperò serbo contribuì a bloccare l’avanzata turca che si prefiggeva di raggiungere Vienna. All’indomani della fine della dominazione turca, le donne, che ancora andavano in giro col velo, ebbero sei mesi di tempo per toglierlo. E tuttavia, perfino allora, vennero per lo più rispettate le chiese e la religione degli sconfitti. In una delle chiese all’interno del patriarcato, madama Dobrila ci mostra alcuni reperti che gli italiani hanno sottratto al saccheggio nei monasteri bruciati. Non per la prima volta, sentiamo lodare la sensibilità dei nostri militari che, unici in questo senso, hanno anche fatto delle copie e catalogato tutti i reperti in attesa di restaurarli. Sulle porte di questa chiesa c’è l’Arcangelo Gabriele, e la sua spada indica l’impossibilità di predicare al di fuori della parola del Vangelo, all’interno della Chiesa. Mi segno un appunto su qualche futuro lavoro sulla comunicazione e l’importanza della Parola, che prenda spunto da questa concezione, che vorrei approfondire.
Quando usciamo, perché ci vengono a prendere, dopo aver ricevuto in dono un’immagine della Maternità e aver comprato altre icone, salutiamo madama Dobrila, che ci dice della beneficenza fatta dal monastero con i fondi e gli aiuti che arrivano, per le famiglie dei dintorni. E con Alessandro ci ripromettiamo di tornare senz’altro, magari proprio fa un paio di settimane, quando torneremo a Kraljevo con i ragazzi.
Salutiamo i militari e le militari italiani, penso al mito degli ‘italiani brava gente’ che, forse, è un altro paradosso alla luce di tanti fatti atroci dei quali siamo stati protagonisti. Gli aerei che partivano da Aviano coi papà che portavano i bambini piccoli a fare ‘ciao ciao’ agli aerei (belle immagini da televisione!), ma anche a quelli aerei italiani che, passando sopra le postazioni serbe (così si racconta da queste parti), evitavano di bombardare, mentre i serbi evitavano di sparare. Quanti aerei italiani hanno contribuito ai bombardamenti dei reparti di neonatologia, degli acquedotti, non lo so. Accanto al mito degli italiani brava gente c’è, in fin dei conti, anche la storia degli italiani ‘palikuca’ (appellativo dato dai montenegrini agli italiani nella seconda guerra mondiale: ‘incendiari’, ‘bruciatetti’). Forse però è anche riduttivo dire che la natura umana è uguale ovunque, o che i soldati sono comunque soldati. I fatti sono fatti, e i fatti dicono che la gente, qui, apprezza i militari italiani più di altri, e i militari che ho conosciuto in Italia, tornati dal Kosovo, hanno tutti confermato che gli è bastato poco per capire, una volta sul posto, chi era a dover essere protetto.
Ci aspetta il pullman, ma c’è chi si lamenta perché è ora di pranzo, così facciamo una sortita in un locale dove compriamo dei giganteschi panini pieni di ćevapčići (salsiccette tipiche). Scoprendo che anche nel Kosovo indipendente si può mangiare, e bene, quella che considero una ragione sufficiente per tutti i viaggi in Serbia (insieme a tutte le altre prelibatezze culinarie e non solo). Il panino, che sembrava gigantesco, dura pochissimo.
Attraversando il ponte di Mitrovica
E’ sera quando torniamo a Kraljevo da Novka e famiglia, e ci incontriamo con le altre volontarie che hanno già provveduto a distribuire i sostegni alle famiglie dei bambini, che domattina porteremo in Italia. Solo che ‘domattina’ significa ‘due di notte’, e passiamo le poche ore che restano a giocare ad un anomalo poker, con Alessandro e Marko ‘l’artista della vita’ (http://unsorrisoperognilacrima.blogspot.com/2008/09/sabato-20-settembre-2008.html), cui si aggiunge, con il consueto entusiasmo, anche Novka.
Alle due, dopo i preliminari saluti e gli inviti di Jordanka al sottoscritto ‘devi cantare!’ (ormai è proverbiale la mia passione per le canzoni serbe), si parte per l’Italia, con l’autista ormai collaudato Rade (che per il soggiorno italiano ha pensato giustamente di portare con sé la compagna).
26 giugno
Bimbi, ma soprattutto ragazzi e ragazze ormai adolescenti, molti parlano italiano, dopo tante vacanze romane, quasi tutte/i lo capiscono. E per i dubbi lessicali c’è Ana. Perdiamo parecchio tempo alla frontiera croata per il controllo passaporti. Fotografo il paesaggio croato (lo stesso cielo, slavo del sud).
Cielo slavo della Croazia
Alle 11,30 circa siamo a 152 km da Ljubliana. Si dormicchia scomodi, col sottofondo di musica e film comici, serbi.
Intorno alle 16, lo slavo cielo del sud (l’ultimo pezzo, sloveno) lascia posto, si fa per dire, all’italico cielo del nord.
Cielo slavo della Slovenia
Arriviamo a Venezia sul tardi, e ci incontriamo con gli altri, che ci stavano aspettando.
L’idea di girare un po’ per Venezia è fortunata, visto la tempesta della mattina dopo. Sistemato tutto in ostello, usciamo accompagnati da Giandomenico e da Marina, serba che parla italiano meglio di noi e illustra ai ragazzi (come a scuola, sono le femmine ad essere più interessate, ma perché?) bellezze e storie di Venezia.
Grazie alla cortesia del proprietario di una pizzeria, riusciamo a mangiare un bel pezzo di pizza con tutti i ragazzi, malgrado l’ora tarda, dopodiché, un’altra istruttiva e affascinante passeggiata per la Venezia notturna, ci riporta all’ostello, dove passiamo la notte. Tra lampi e tuoni.
27 giugno
La pioggia è feroce, riusciamo a prendere il servizio navetta e arriviamo al piazzale del pullman. Si riparte. Stavolta per l’Abruzzo terremotato, a portare solidarietà e cercare collegamenti, fin troppo amari, tra le case distrutte dalle bombe e quelle distrutte dalla vergogna di chi doveva costruirle.
Circa a un quarto alle nove (di sera) usciamo dal traforo del Gran Sasso. Continuo a fotografare nuvole, ma l’aria si sta facendo più scura. Arriviamo finalmente, piuttosto stanchi, nella tendopoli vicino Novelli, dove ci stanno aspettando i militari e i cuochi. I militari della Folgore ci spiegano come sistemarci e ci mostrano le tende dove saremo alloggiati. E poi a cena. Dove finiremo per brindare ancora con la grappa serba e a familiarizzare con militari e cuochi.
Un momento di condivisione intenso e, tutto sommato, solo apparentemente paradossale. Perché si parla di humanitas, di là da divise e ideologie. Un militare ci mostra i cagnolini che hanno salvato (insieme a un pony e un paio di cinghiali). Un altro, ci racconta con un po’ di amarezza del non eccezionale contributo della maggior parte della gente del paese, ma c’è anche un anziano che va ad aiutarli, in quel campo che, va detto, è un esempio di organizzazione ed efficienza, unite ad una grande gentilezza. Così, dopo una notte che mi rievoca piacevolmente (altro paradosso, questo fascino per certi ricordi) il passato militare, meno piacevole solo per il russare di uno dei compagni di viaggio… paradosso o no, la mattina dopo riprendo l’alzabandiera dei militari della Folgore.
28 giugno
C’è un campo di calcio, l’avevamo visto subito, appena arrivati. E dopo colazione si comincia subito a giocare col gruppo di musicisti napoletani che, come noi, parteciperanno alla manifestazione culturale nel paese vicino. Lotta impari, perché i giovani serbi (più qualche italiano), sono assistiti dal tifo delle ragazze (e anche, ma sì, dalla perizia tecnica di Alessandro allenatore da fuori campo, bravo soprattutto a incitare con urlacci il figlio). Ma la partita è bella, e la sconfitta dei napoletani onorevole. Finisce circa 11 a circa 4.
L’allegria romano-serbo-napoletana esplode nei balli improvvisati, prima di partire sul pullman dei Vigili del Fuoco. Strumenti popolari, sintesi di kolo e tarantelle, militari che partecipano emotivamente (ma non ballano).
Ci si sposta sulla panoramica terrazza del paese vicino, dove era prevista la manifestazione; ci sono autorità e manca la gente. Ci accolgono i clown degli ‘artisti aquilani’; dopo pochi minuti ci ritroviamo tutti possessori di uno splendido naso rosso. Tra balli e canti dei napoletani, su un palco che poi diventa palcoscenico per tutti, tra bolle di sapone, palloncini, il sole che per la prima volta splende (ma durerà poco), le bambole fatte con i papaveri, delle quali Samantha pretende il copyright (valga questo scritto come attestato), risate e poi ancora balli e risate e canzoni, le forze dell’ordine che assistono in disparte (ma un naso rosso se lo metterebbero anche loro); passa così la mattinata.
Si torna al campo, dove i ragazzi riprendono a giocare a pallone (rinuncerebbero anche al pranzo speciale preparato per la domenica). Stavolta, ci buttiamo nella mischia con Alessandro.
Il pranzo è ottimo (e abbondante), la seconda bottiglia di rakija è immolata alla solidarietà con i militari e il personale protagonisti della tendopoli, il calore (alcolico e umano) distende le discussioni col militare leghista col quale si discute cordialmente (i ‘politici’ di oggi non ci riuscirebbero mai), ed anche il capitano dei paracadutisti che somiglia a D’Annunzio partecipa al brindisi. Finale degno di questo viaggio, un’ora di balli e spettacolo improvvisati, tutti insieme, mentre arrivano anche i carabinieri e qualche persona del paese osserva dai tavoli, tutto in grande allegria.
Forse è il caso di parlare ancora di paradosso. Di quella simpatia che accomuna persone così diverse; ma non è un paradosso, per noi, provare stima e riconoscenza per persone che esprimono idee così agli antipodi. Non è paradosso, è ancora humanitas. E viene da pensare che i paradossi andrebbero finalmente risolti tutti, o smascherati.
Il paradosso è ciò che contrasta con l’opinione comune. E’ vero che ne abbiamo incontrati molti, ma perché accontentarsi di lasciarli così? Il paradosso partecipa della natura dell’enigma, semmai, non del mistero, e gli enigmi si svelano. Basta avere gli strumenti: prima di tutto la logica, poi la corretta informazione. Basta anche la logica, se l’informazione è carente o falsa (a qualcuno non sfuggirà il riferimento a una più idilliaca poesia della Dickinson).
Siamo a Roma. A Tor Vergata ci aspettano le famiglie che ospiteranno le ragazze e i ragazzi. La prima parte di questo viaggio si conclude.
Mi
Distendo
Aprendomi
Tensione verticale
Il paradosso che ci fa credere che sia il sole a muoversi, si svela quando la scienza lo spiega. Il paradosso che dal Kosovo fossero i residenti albanesi a fuggire, mentre oggi non ci sono quasi più serbi, poteva essere risolto prima, con la logica, perché l’informazione è stata criminale. Bastava sapere un po’ di matematica, per capire che il numero di profughi non poteva essere pari, più o meno, a quello dei residenti. Bastava analizzare con la logica le cifre fornite dall’informazione. Bastava guardare meglio le foto delle centinaia di fosse comuni su giornali (sedicenti di sinistra) per accorgersi (come qualcuno ha fatto) che erano false. Oppure chiedersi, a guerra finita, che fine hanno fatto. Qui non si tratta di paradosso, se la gente è ancora convinta che andava liberato il Kosovo dalla pulizia etnica serba; si è trattato di un’operazione di criminalizzazione funzionale. Il giorno prima, l’UCK era definito ‘banda di tagliagole’ dall’amministrazione statunitense, il giorno dopo la Albright li investiva dell’onore di diventare ‘esercito di liberazione’. Contraddizione sbattuta in faccia al mondo, ma l’opinione pubblica non ci ha neanche fatto caso. La Albright, che agli studenti americani, che le chiedevano conto del mezzo milione di bambini morti in Iraq causati dalla prima guerra del Golfo, rispose che era ‘il giusto prezzo da pagare’. Quanto al Kosovo liberato, c’è solo da invitare a rivedere o vedere il servizio della Rai, su Kosovo e narcotraffico, andato in onda pochi mesi fa, per capire a chi è servita questa indipendenza ottenuta a colpi di uranio impoverito, che sta facendo vittime di cui nessuno parla. E magari qualche paradosso scompare. Non è paradosso che il grande orgoglio serbo, le grandi rivendicazioni di appartenenza del Kosovo, terra a loro sacra, si frammenti nell’amarezza dei resistenti, contro quelli che adesso vendono le case agli albanesi anziché tornare, anche in un Kosovo non più Serbia ma almeno con più serbi, per contare di più, e i serbi che sono dovuti fuggire, che adesso hanno i figli cresciuti in altre realtà e che non ce la fanno o non possono tornare. Non è paradosso, si chiama guerra tra poveri. E anch’io, e me ne dispiace, sono costretto a sciogliere questo paradosso di aver parlato di serbi e albanesi dando forse l’idea che, sentirsi vicino a una parte, significhi essere contro l’altra. Certo, ricordando Don Milani anche io rivendico il diritto di decidere quale sia la mia Patria e quali i miei nemici. Ed anche per me, si gioca tutto sulla dialettica tra oppressi e oppressori. I popoli sono oppressi, e non me la sento di definire un popolo qualsiasi ‘oppressore’. Sono i governi a opprimere, e non credo che gli albanesi, da questo punto di vista, siano stati privilegiati, aizzati a questa guerra dai nuovi padroni del Kosovo e dai criminali internazionali di sempre. Tanti anni fa, io mi finsi albanese perché dei bambini (anche allora) abituati al disprezzo verso le ultime ruote del carro (al tempo erano gli albanesi, oggi, forse, i rumeni), imparassero a dissociare la persona dall’etichetta. E chi se li scorda i ragazzini albanesi, i loro genitori che lavoravano sodo, le maschere di carnevale che costruivo lì per lì perché non potevano permettersele… Nessun paradosso, chi è oppresso è oppresso, e non c’entra la nazionalità. I paradossi umani, quelli veri, nascono dalle sovrastrutture culturali che, nel bene e nel male, e spesso in modo drammatico, ci differenziano dagli animali. Ecco perché posso senza nessuna contraddizione solidarizzare e provare stima più per il soldato che vota lega che per tanti tromboni che, a parole, dovrebbero stare dalla mia parte. Perché condivido (certo, forse solo in quel momento, ma non è comunque un caso), nelle parole scambiate, negli sguardi e in particolari che appartengono alla più significativa comunicazione non verbale, il senso di una condivisione dell’umanità più vera. Tutto il resto, le reciproche opinioni politiche più o meno fondate, o travisate, da una parte e dall’altra, vittime o meno di false informazioni o false speranze, sono poca cosa. Il serbo e l’albanese che bevono caffè e rakija insieme, dove i giornali ci raccontano di odio feroce, il serbo cacciato dalla sua casa che nel 2000 (primo campo di lavoro) ci raccontava piangendo del suo vicino albanese che non avrebbe più rivisto; non c’è paradosso, c’è umanità, che non viene raccontata dalle televisioni, perché fa comodo alimentare l’opinione comune più becera. La popolazione francese, da sempre amica dei serbi, più ancora degli italiani (considerati un popolo fratello, e quanto male ha fatto ai serbi questo doppio tradimento!), era contraria alla partecipazione della Francia all’aggressione Nato. Aggressione, perché non ci fu dichiarazione di guerra, ma il rifiuto di firmare un accordo capestro. Una controversia internazionale, semmai, per la quale la nostra costituzione, articolo 11, vietava espressamente anche l’intervento dell’Italia. E così la televisione francese mandò le immagini delle mai trovate centinaia di fosse comuni, per settimane, e convinse l’opinione comune. Perché l’emotività, disgraziatamente, è più aggressiva della ragione. E’forse quella, a costringere qualcuno a commuoversi ascoltando ancora oggi ‘Vidovdan’, o che spinge poche persone a incamminarsi verso la piana dei merli, verso un Kosovo che è sempre meno Serbia, se non per slogan? Paradosso di una guerra definita umanitaria? Non confondiamo, quello non è un paradosso, è un crimine grammaticale e una vergogna per chi l’ha usato.
Basta la logica, dunque, ma richiede impegno. La mente resa flaccida dall’assuefazione a spettacoli grandefratellari e dalle fatiche di impegni per la sopravvivenza quotidiana, non sempre è disposta a faticare, e lascia passare quello che viene passato per verità ‘comoda’.
Ecco perché, nei monasteri che abbiamo visitato, ci ritroviamo, pur non credenti, incantati a guardare quelle immagini sacre, che raccontano di una storia umana e di una ricerca verso il trascendente che, comunque, è parte dell’uomo. Potremmo buttarla in antropologia, ma si peccherebbe all’inverso; negare senza dimostrare è come aver fede senza dimostrare. Entrambe le cose sono soggettive, e vanno bene finché non pretendano di imporre stili di vita agli altri. Così, le immagini iconiche della Madonna col bambino, che compriamo ogni volta, vanno comunque bene. Perché la maternità è l’espressione più umana che ci sia (anche se una lapide che ricorda un artista di Cortona vi aggiunge il martirio, la croce), e, non a caso, anche a scuola risolverebbe tante diatribe su crocefissi imposti. Tutto ciò che va ‘oltre’, riguarda il mistero, e la ricerca personale.
I paradossi sono smagliature di assurdità nel tessuto della conoscenza: dapprima ci fanno dubitare delle nostre credenze e poi ci spingono a ridefinire i nostri concetti. (Odifreddi)
Si conclude la prima parte della storia, perché stiamo per tornare in Serbia e Kosovo, per riaccompagnare quei ragazzi. E per raccogliere altre testimonianze, e forse andare a trovare di nuovo madama Dobrila, nel patriarcato di Pec. Continuo a pensare, chissà perché, all’immagine delle scarpe che lasciamo ogni volta fuori dalla porta quando entriamo in una delle loro case, e ai proprietari che, in quanto ospiti, ci invitano ogni volta a tenerle.
Un
Ultimo
Pensiero
Odora di te
Dopo tanti paradossi, chiudo con alcuni versi di una poesia, di Jovan Dučić. Me li fece conoscere una ragazza serba anni fa, me la ricordano due fiorellini gialli, sul pacchetto di un regalo che porterò a un’altra ragazza, che era piccola quando l’ho conosciuta nel 2001 e ci siamo 'adottati' come fratelli. Eravamo in un istituto minorile di Belgrado, durante un campo di lavoro. Molti di quei ragazzi, ormai adulti, sono i miei amici che mi aspettano ogni volta che torno in Serbia. Ragazzi e ragazze che, come Dzemilja, sono la parte più consistente del mio ‘cuore in Serbia’. A srce u Srbiji.
Ја не мећем на те ђинђуве са траком,
Него жуте руже у те косе дуге:
Буди одвећ лепа да се свиђаш сваком,
Одвећ горда да би живела за друге.
Io non metto su di te fili di perle ma
Rose gialle nei tuoi lunghi capelli
Sii talmente bella da piacere a tutti
E talmente orgogliosa per vivere per gli altri.
Pomeriggio dolce assolato terso
Sotto un cielo slavo del Sud pieno di grazia.